Confessioni di un guerriero di droni

Lui, a dir la verità, era un esperimento. Uno dei primi ad essere stati reclutati per un nuovo tipo di guerra in cui uomini e macchine si fondono. Ha volato in diverse missioni, senza mai lasciare la sua postazione informatica. Ha dato la caccia a pericolosi terroristi, ha salvato vite umane, ma sempre da lontano. Ha pedinato e ucciso un numero incredibile di persone, ma non sempre sapeva a cosa o a chi stesse mirando. Vi presentiamo la macchina da guerra Americana del 21° secolo. Che è ancora, incredibilmente e terribilmente umana.



Nella foto: L’ aviere scelto Brandon Bryant

Dal buio di un box nel deserto del Nevada, guardava tre uomini che procedevano per una strada sterrata in Afganistan. Il box veniva tenuto al freddo – precisamente 68 gradi F°, – e l’unica luce all’interno proveniva dai monitor dei computer.

L’aria era irrespirabile, impregnata di sudore umano stantio e di fumo di sigarette. Sulla sua console c’era un’immagine di un paesaggio invernale della provincia afgana orientale del Kunar – una tavolozza di marroni e di grigi, campi di paglia secca, foreste scure che salivano su per i pendii dell’Hindu Kush. Zoommò sui tre sospetti, ognuno di loro era vestito con i tradizionali shalwar kameez, lunghe camicie e pantaloni larghi. Non sapeva altro di loro: i loro nomi, i loro pensieri o i mille e mille altri dettagli della loro vita.

Gli era stato detto che trasportavano fucili sulle loro spalle, ma per quanto lui ne sapesse, potevano essere dei semplici pastori. Tuttavia, la direttiva dall’alto, quella misteriosa catena gerarchica che finiva dritta nella sua cuffia, era chiara: confermato, sono armi. Quindi lui passò dallo spettro visivo – dai grigi e dai marroni della normale “Tv” – al forte contrasto degli infrarossi: e le impronte di “calore” dei tre uomini che avanzavano apparivano come dei fantasmi bianchi contro il nero del terreno sotto di loro. Un osservatore della sicurezza dietro di lui si raccomandò che l’attivazione dell’arma avvenisse secondo il manuale. Una lunghissima checklist, il bersaglio del laser centrato sui due uomini che camminavano davanti. Un conto alla rovescia – tre…due…uno…e poi la semplice frase “missile fuori”. Da 7,500 miglia di distanza, si liberò dal suo guscio un missile Hellfire e in pochi secondi raggiunse una velocità supersonica.

C’era silenzio nel box freddo e buio nel deserto, a parte il ronzio delle macchine.

Mantenne il bersaglio del laser fermo sui due uomini davanti e guardò intensamente, tanto da distinguere ogni pixel dell’immagine, doveva apparire da un momento all’altro un punto astratto e brillante, Il tempo diventò duttile, i secondi si allungarono e rallentarono ad uno strano ritmo elettronico. Mentre guardava gli uomini camminare, quello che stava dietro sembrò aver avvertito qualcosa e iniziò a correre per raggiungere gli altri due. E poi, silenziosamente, lo schermo si illuminò in una fiammata bianca.

L’aviere scelto Brandon Bryant fissò la scena, senza battere ciglio, al chiarore accecante degli infrarossi. Se ne ricorda ancora ora, dopo diversi anni, fissato nella memoria come il negativo di una foto: “Il fumo si dirada, e ci sono pezzi dei corpi dei due attorno al cratere. E poi c’e’ quell’altro uomo, gli manca un pezzo di gamba sopra al ginocchio, se la regge, si rotola per terra, e il sangue schizza fuori dalla gamba e cade per terra, e il suo sangue e’ caldo. Il suo sangue è caldo, e quando arriva a terra inizia a raffreddarsi. Gli ci vuole tanto per morire, io lo guardo, lo guardo mentre piano piano diventa dello stesso colore del terreno sotto di lui”.

Era il primo colpo lanciato da Brandon Bryant. Era l’inizio del 2007, poche settimane dopo il suo 21° compleanno, e Bryant era un operatore d sensore aereo comandato da remoto – in poche parole era un “sensore” – parte di uno squadrone delle Forze Aeree statunitensi che comandavano i droni Predator nei cieli sopra l’Iraq e l’Afganistan. Dal 2006 iniziò a lavorare dentro quei box senza finestre di una Ground Control Station (GCS – Stazione di controllo terrestre) alla Base Aerea di Nellis, una spianata di asfalto e di hangar di manutenzione ai confini di Las Vegas.

Gli avieri addetti tenevano la stazione di controllo al buio in modo da concentrarsi esclusivamente sul controllo dei loro Predator MQ-1B che sorvolavano le aree afgane a due miglia di altezza. Bryant si sedette sulla poltrona imbottita da pilota. Aveva una corporatura solida da lottatore, una testa perfettamente rasata e uno sguardo profondo di ghiaccio a volte percorso da guizzi sarcastici. Come “sensore”, lavorava in tandem con il pilota del drone, seduto sulla poltrona vicino a lui. Mentre il pilota controllava le manovre di volo del drone, Bryant fungeva da occhi dello stesso, concentrando le telecamere verso l’obbiettivo e puntando il laser verso il bersaglio. Il lancio dell’Hellfire era un’operazione congiunta: il pilota premeva il grilletto e Bryant si preoccupava della “guida” mirata del missile, dirigendo con il laser la testata altamente esplosiva verso il bersaglio. Entrambi gli uomini indossavano le uniformi regolamentari di volo verdi, segno tutt’altro che ironico, voluto dall’Air Force, della continuità del decoro militare nell’era della guerra dei droni.

Fin dalla sua concezione, il programma droni è stato tenuto piuttosto nascosto; i dettagli operativi sono stati desunti qua e là da svariati documenti super-riservati e attraverso tour guidati organizzati dai militari per i media.

Bryant è uno dei pochi ad avere un’esperienza diretta come operatore e ad essere disponibile a parlare apertamente per descrivere la propria personale esperienza. Se da una parte Bryant considera degli eroi persone come Chelsea Manning e Edward Snowden che hanno sacrificato la loro vita per dei principi, è piuttosto cauto nel discutere alcuni dettagli altamente segreti a cui lui ha regolarmente accesso. Tuttavia, si mostra totalmente disponibile a parlare del programma che ha ucciso e uccide, per conto nostro, migliaia di persone a distanza.

Nonostante Obama si sia recentemente impegnato a ridurre al minimo l’utilizzo del programma, gli attacchi dei droni sono continuati a ritmo usuale in zone del Pakistan, dello Yemen e dell’Afganistan. Con un enorme potenziale di crescita e di spesa, i droni sono destinati a rimanere, nel prossimo futuro prevedibile, al centro delle nostre politiche militari (entro il 2025 i droni saranno un business da $82 miliardi di dollari, impiegando ulteriori 100,000 lavoratori). La maggior parte dei cittadini americani – il 61% secondo l’ultimo sondaggio PEW – appoggiano l’uso dei droni, l’idea cioè di un potere d’attacco dell’America che non mette in pericolo vite americane.

Comunque l’idea stessa dei droni sconvolge. Sono il simbolo e l’avatar di tutte le nostre ansie tecnologiche – quell’idea spiazzante che degli schermi e delle telecamere ci abbiano portato via un pezzo di anima, tali da farci scivolare in una distopica disconnessione. Forse è troppo presto per sapere cosa significhino davvero i droni e quale peso morale ed etico essi comportino. Persino la loro sagoma appare sinistra: quel naso conico grottesco e sinistro, come delle creature senza occhi evolutesi nell’oscurità.

Per Bryant, parlare dei droni è diventata una sorta di catarsi confessionale, un mezzo per elaborare le cose che ha visto e ha fatto durante i sei anni nell’Air Force come test sperimentale di una nuova e terribile forma di guerra moderna.

Guardando indietro, è stato quasi per puro caso che sia finito in quel box nel deserto. Allevato da una madre single piuttosto povera, maestra in una scuola di Missoula, Montana, fece di tutto per arrivare a permettersi l’iscrizione all’Università del Montana. Nell’estate del 2005, accompagnando un amico all’ufficio di reclutamento dell’esercito, fece un giro nell’ufficio dell’ Air Force alla porta accanto. Il suo amico alla fine ci ripensò e non si arruolò, ma Bryant ormai aveva firmato. Nel giro di poco tempo era già alla base aerea di Lackland durante la Settimana dei Guerrieri, nel caldo soffocante dell’estate texana. Non era molto portato per la carriera militare, ma ottenne un alto punteggio nei test attitudinali e fu scelto per l’intelligence, addestramento analisti di immagini. Gli dissero che sarebbe diventato “come quei ragazzi che mandano a James Bond tutte le informazioni di cui ha bisogno per portare a termine le sue missioni”.

La maggior parte dei sui compagni di intelligence furono avviati al programma droni, addestrati alla Base dell’Air Force di Creech nel sabbioso deserto un’ora a nord di Las Vegas. A Bryant fu detto che quello era il gruppo più grande mai formato prima. Il suo corso di opertore di sensore durò dieci settimane e terminò con esercizi “bandiera verde”, durante i quali avieri pilotavano Predator e lanciavano missili Hellfire nel deserto contro una finta città di cartone. I missili, caricati a cemento, colpivano dei mezzi rottamati messi qua e là sul “set”. “Era come giocare a Dungeons & Dragons,” dice Bryant. “Tira un d20 per vedere se colpisci il tuo bersaglio”. L’addestratore dietro le sue spalle iniziava il conto alla rovescia fino all’impatto e poi diceva “Boom! Hai ucciso tutti!”.

In pochi mesi fu “mandato in guerra”, in missioni aeree sopra l’Iraq, nel periodo più caldo del conflitto, ma senza mai lasciare il Nevada.

Il suo primo giorno di lavoro fu anche il suo peggiore. Il drone si levò in volo dalla base aerea di Balad, cinquanta miglia fuori da Bagdad, nel Triangolo Sunnita. Gli ordini, impartiti durante un briefing prima dell’inizio della missione, erano chiari: una missione di protezione delle forze americane, fare da angeli custodi ad un convoglio di Humvees. Doveva individuare degli IED, attività sovversive ed altre minacce possibili. Era notte negli Stati Uniti e giorno in Iraq quando il convoglio iniziò a muoversi.

Da 10,000 piedi di altezza Bryant scannerizzò la strada con gli infrarossi. Il traffico era tranquillo. Tutto normale. Poi localizzò uno strano cerchietto che brillava appena sulla superficie della strada. Per i sovversivi era pratica comune utilizzare dei pneumatici bagnati di benzina, dargli fuoco su una strada e poi sotterrare il pneumatico ammorbidito dal fuoco sotto la terra. La tecnica lascia una traccia termica visibile agli infrarossi. Bryant, un fan del Signore degli Anelli, ci scherzò su dicendo che sembrava l’Occhio di Sauron.

Bryant segnalò l’oggetto al pilota, secondo il quale si trattava certamente di un pericolo. Ma quando tentarono di avvisare il convoglio, si accorsero che non potevano. Quelli del convoglio di Humvees avevano attivato i loro disturbatori di onde radio per interrompere i segnali cellulari utilizzati per detonare a distanza gli IED. I tentativi di contatti radio della squadra droni furono inutili tanto quanto lo sarebbe stato urlare agli schermi. Brandon e il pilota coinvolsero il loro supervisore di volo per trovare un modo per comunicare al convoglio. Iniziarono a scrivere freneticamente in una chat una serie di messaggi inviandoli a diversi superiori sia negli Stati Uniti sia in Iraq. I minuti passavano ed il convoglio procedeva lentamente verso il cerchietto rilevato. Bryant guardava fisso lo schermo, con il cuore che gli batteva, respirando appena. Il convoglio passò sul cerchietto, “non succede niente”, disse Bryant. “..e forse, chissà, magari ci siamo sbagliati”. Tutti fecero un sospiro di sollievo “meno male, bravi però che lo avete visto, ma siamo felici che non è quello che pensavate”. Si ricorda la sensazione di sollievo, la tensione fluire fuori da lui e… “e poi arrivò il secondo veicolo e..BOOM.”

Una fiammata bianca apparve sullo schermo. Bryant zoommò al massimo, alternando la visione da infrarossi alla normale ripresa televisiva e vide con orrore il convoglio in fiamme. Nella cuffia esplose una voce dall’unità terrestre in Iraq “Che cazzo è successo??? Abbiamo dei morti qui!!!” Alcuni soldati del convoglio si agitavano intorno, cercando di tirare fuori i compagni dalle macerie fumanti. L’IED era stato attivato forse con la pressione o a mano; con tutti i disturbatori attivati non si sarebbe potuto fare niente. Tre soldati rimasero gravemente feriti e due uccisi.

“Arrivai alla notte ammutolito” dice Bryant. “Poi te ne vai a casa. Nessuno parla. Nessuno disse cosa aveva provato. Era come un accordo sottinteso, non parlare di quello che si era vissuto”.

··· Il ritmo di lavoro nel box fece perdere a Bryant il senso del tempo. Faceva turni di dodici ore al giorno, sei giorni la settimana, spesso anche di notte. La guerra stava andando male su entrambi i fronti e l’US Air Force contava molto sulla sua flotta di droni. Un Predator armato può rimanere in volo anche diciotto ore, e piloti e sensori tendevano a prolungare i loro turni tanto quanto la tecnologia che controllavano. (Bryant ci dice che non prese neanche un giorno di permesso nei suoi primi quattro anni di servizio).

Persino l’odore di quell’angusto posto di lavoro nel deserto fa barcollare Bryant al solo ricordo. Il centro di controllo, ermeticamente sigillato, era costantemente occupato – non si poteva andare in bagno se non si era sostituiti da qualcuno – e l’atmosfera all’interno era impregnata di fumo di sigarette e di sudore stantìo, qualcosa che nessun Febreeze del mondo potesse coprire. Un pilota ha persino calcolato il numero di peti che ogni sedile aveva assorbito.

Il lavoro della squadra era per lo più un’ interminabile sessione di osservazione: scannerizzazione delle strade e di complessi abitati, individuazione di attività sospette. Quando c’erano situazioni di “truppe-in-contatto”, scambi di fuoco o truppe che chiedevano appoggio nell’attacco – il Predator di Bryant poteve essere sul posto in pochi minuti con il suo carico mortale. Ma la maggior parte del tempo lo trascorreva guardando noiosissime immagini di tetti, cortili recintati o incroci stradali.

Seduto nell’oscurità della sua stazione di controllo, Bryant guardava la gente dall’altra parte del mondo andare avanti con le loro vite, totalmente ignari di essere oggetto di osservazione dal cielo. Se la sua missione fosse stata quella di osservare solo un oggetto considerato di alto valore strategico, magari gli sarebbe toccato osservare il tetto di una sola casa per settimane. In un certo senso era un’intimità di natura voyeuristica. Guardava i suoi bersagli bere il tè con gli amici, giocare con i loro figli, fare sesso con le loro mogli sui tetti o tra le lenzuola. C’erano anche partite di pallone e matrimoni. Una volte vide un uomo che entrava in un campo e pestava una cacca, che appariva bianca sullo schermo.

Bryant escogitò dei piccoli sotterfugi per passare meglio le lunghe ore alla console: portarsi di nascosto del cibo nel box, cucirsi l’uniforme strappata, farsi coprire dal pilota per un quarto d’ora per farsi un sonnellino. Riuscì anche a leggersi dei libri, pur continuando ad osservare regolarmente gli schermi della stazione, alzando gli occhi dal libro ogni minuto. Elaborò un linguaggio tutto speciale legato alla sua occupazione. Lesse il classico di fantascienza Il Gioco di Ender, che parlava di bambini che giocavano a giochi di simulazione violenti che poi si scoprono essere guerra vera. E poi arrivò Asimov, e Bryant iniziò a considerare seriamente le tre leggi della robotica nell’era dei Predator e degli Hellfire. Un robot non può recare danno agli umani.

Bryant operò cinque attacchi nei suoi primi nove mesi di servizio. Dopo un attacco gli fu chiesto di osservare un sito per diverse ore, per poter fare un rapporto “post-attacco”. Gli capitò quindi di guardare persone che raccoglievano i resti di quelli rimasti uccisi per trasportarli al cimitero locale o ripulire la zona buttando le armi in un fiume. In Iraq seguì un capo di sovversivi mentre guidava dentro un mercato affollato. L’uomo parcheggiò la macchina in mezzo alla strada, aprì il cofano e ne tirò fuori due ragazze. “Erano legate e imbavagliate,” disse Bryant. “Le fece mettere in ginocchio e le giustiziò in mezzo a quella strada, lasciandole poi lì. La gente restò a guardare e non fece niente.” Un’altra volta, Bryant osservò la scena di un funzionario locale che si scavava la propria fossa prima di essere giustiziato da due sovversivi talebani.

Nei primi mesi di servizio Bryant si fece prendere dall’entusiasmo della Caccia Grossa quando uno del suo squadrone mise a segno degli attacchi “memorabili”, situazioni in cui “quelli erano dei veri cattivi e dovevano essere eliminati”. Ma cominciò a insinuarsi in lui una profonda ambivalenza sul lavoro che svolgeva. Spesso si ritrovata a immaginare come doveva essere la vita in quei villaggi e quelle città sopra cui volavano indisturbati i suoi Predator come avvoltoi in volo circolare. Come si sarebbe sentito lui vivendo sotto l’ombra di una sorveglianza robotizzata? “Malissimo”, dice ora. Ma all’inizio credeva che quella missione fosse vitale, che i droni fossero in grado di limitare al minimo le sofferenze delle guerra, che potessero salvare vite umane. Quando questa nozione entrava in conflitto con le cose che viveva ad altissima risoluzione da due miglia di altezza, cercava di levarsi quei pensieri dalla testa. Col tempo scoprì che tutto quel “gioco” lo aveva reso ebete. Era in “modalità zombie” e ci era scivolato dentro tanto facilmente quanto lo era indossare la sua uniforme di volo.

Il secondo attacco di Bryant avvenne poche settimane dopo l’attacco ai tre uomini su quella strada sterrata a Kunar. Era stato messo in coppia con un pilota che non gli andava molto a genio e gli furono date istruzioni di monitorare un complesso che, secondo l’intelligence, nascondeva un individuo ad alto rischio – forse uno capo talebano o un affiliato di Al Qaeda. Nessuno gli aveva illustrato direttamente i dettagli dell’operazione. Era una tipica casa in mattoni afgana, capre e mucche intorno a un cortile centrale. Dovevano guardare un angolo preciso dell’edificio, ore e ore di noia mortale. Pensarono che il bersaglio fosse addormentato.

E poi finì la pace. “Riceviamo istruzioni di fare fuoco” ci dice. “Dovevamo far fuoco e distruggere l’edificio. Secondo l’intelligence l’uomo è all’interno dell’edificio”. La squadra droni non ricevette alcuna altra istruzione, alcun dettaglio su chi fosse quella persona e perchè un Hellfire dovesse schiantarsi contro la sua casa.

Il laser di Bryant puntava verso l’angolo dell’edificio. “Missile armato”. Non si mosse niente nel complesso, tranne capre e mucche. Bryant isolò i pixel delle immagini. E poi, sei secondi prima dell’impatto, scorse un concitato movimento all’interno. “Era una figura che girò di corsa l’angolo dell’edificio. E a me sembrava un bambino. Sembrava un piccolo essere umano.”

Bryant fissò lo schermo, col sangue gelato. “Ci fu un grande bagliore, e all’improvviso lì non c’era più nessuno”. Si girò verso il pilota e chiese ”Non t’e’ sembrato un bambino quello li?” Scrissero un messaggio al loro interlocutore dell’intelligence che osservava la scena da qualche parte nel mondo, forse Bagram, forse il Pentagono, Bryant non lo sapeva proprio – chiedendo se quella figura che correva all’ultimo minuto fosse un bambino oppure no. “E quello rispose: ‘..per la cronaca, quello era un cane’ “.

Bryant e il pilota riguardarono la scena, registrata su un nastro da 8mm. La guardarono e riguardarono più volte, quella figura che sbucava correndo da dietro l’angolo. Bryant era certo che quello non era un cane.

Se avessero avuto più secondi a disposizione, avrebbero potuto annullare l’operazione, spostando il laser via dall’edificio. A Bryant non sarebbe importato di sprecare un Hellfire da $95,000 pur di evitare quello che era appena successo. Ma nella versione ufficiale militare dei fatti, non era successo niente di “straordinario”. “Il pilota era il tipo d’uomo a cui non piaceva discutere gli ordini superiori” dice Bryant.

Il suo rapporto post-operazione affermava che l’edificio era stato distrutto e il bersaglio ad alto rischio era stato eliminato. Il rapporto non faceva alcun accenno alla presenza di cani o esseri umani. Il bambino, se quello era un bambino, era solo un fantasma ad infrarossi.

Il contatto più diretto che Bryant abbia mai avuto con un reale combattimento – cioè i bombardamenti lungo le strade e il fuoco dei mortai che normalmente vivono i soldati – avvenne dopo che si presentò volontario per l’Iraq. Passò l’estate infuocata e l’autunno del 2007 alla base aerea di Balad, facendo volare dei Predator in missioni di difesa della base – monitorando l’area e individuando eventuali attività sovversive. Alcuni soldati ringraziarono la squadra dei “dronisti” per essere i loro angeli custodi dal cielo, ma spesso erano oggetto di scherzi e battute del tipo “rangers in poltrona” che si guadagnavano una stella al merito semplicemente scottandosi le dita con un Hot Pocket (ndt: tipo di panino “junk food”). –

Bryant cercava di dimenticare quelle battute concentrandosi sulle scene che apparivano sui suoi monitor. Durante un turno, ricevette l’ ordine di individuare le esatte coordinate di un centro di addestramento di ribelli. C’era un poligono di tiro e lui guardava mentre un gruppo di guerriglieri entravano tutti insieme in un edificio. Uno dei problemi legati all’individuazione e all’eliminazione dei ribelli era che spesso viaggiavano insieme alle loro famiglie ed era praticamente impossibile sapere con certezza chi fossero tutte le persone all’interno di un edificio. Bryant puntò il laser contro l’edificio, come gli era stato ordinato. Pochi attimi dopo, una nuvola di fumo si levò nell’aria e un’enorme fiammata spazzò via l’intero edificio. Un F-16, sulla base delle coordinate laser fornitegli da Bryant, aveva scaricato sul complesso una bomba di più di 500 chili – dieci volte più potente di un Hellfire. “Non ci avevano detto espressamente che dopo averli individuati dovevano farli saltare in aria”. “Siamo rimasti un po’ così….ehi, grazie per avercelo detto”.

Nel 2008, Bryant fu trasferito a una nuova postazione nel “posto più merdoso del mondo”, uno squadrone droni alla base aerea Cannon a Clovis, New Mexico, un posto dove, secondo Bryant “nell’aria non c’è ossigeno, ma merda di vacca”. Continuò a svolgere le sue funzioni di operatore di sensore per diversi anni ancora, ma le direttive diventarono diverse. Ora doveva scovare bersagli di altissimo valore strategico per il Comando Unificato delle Forze Speciali – quello stesso tipo di servizio che avrebbe dato poi la caccia a Osama Bin Laden. “Davamo la caccia ai pezzi grossi. Ci mostravano delle presentazioni in Power Point illustrandoci chi fossero quelle persone” dice. “Perché li stiamo cercando, cosa avevano fatto. Così mi piaceva. Mi piace essere informato su queste dannate cose”.

Bryant non è mai stato filosoficamente contrario all’uso dei droni – li vede come uno strumento come altri, che possono essere utilizzati per scopi buoni, citando ad esempio il loro potenziale nel combattere i bracconieri e prevenire gli incendi nelle foreste. Secondo lui il punto è chi li controlla e per quale scopo. “Non è giusto che sia solo un piccolo gruppo di persone che decide come utilizzarli.” Dice. “Ci deve essere più trasparenza. La gente deve sapere come vengono utilizzati, in modo da utilizzarli responsabilmente.”

Trasparenza: non è certo la giusta definizione che si può attribuire alla politica statunitense sui droni negli ultimi dieci anni. Anche se Bryant è stato addestrato a operare dei droni nelle nostre guerre ufficiali in Iraq e Afganistan, ci sono state allo stesso tempo guerre di droni clandestine in aree come Pakistan, Yemen e Somalia. Dal 2004, la CIA ha effettuato centinaia di attacchi in Pakistan, concludendo accordi segreti con l’intelligence pachistana per portare a termine un programma segreto di eliminazioni. Un’altra base segreta di droni della CIA era gestita dall’Arabia Saudita, lanciando attacchi contro i ribelli nascosti nell’entroterra montagnoso dello Yemen. Anche se Bryant non ha mai “volato” direttamente per la CIA, gli operatori dei droni venivano scelti tra i ranghi dell’Air Force.

Mentre era di base a Clovis, tra i soggetti di maggior valore “strategico” da individuare c’era Anwar al-Awlaki, l’imam yemenita nato negli USA e reclutatore di Al Qaeda. Al-Awlaki alla fine fu ucciso nello Yemen nel Settembre 2011 da un drone della CIA (e una settimana dopo fu ucciso anche suo figlio sedicenne, Abdulrahman). Ma secondo Bryant il suo squadrone “fece piu’ che altro il lavoro di localizzazione degli obbiettivi”.

Per il 2011 Bryant aveva dietro di se quasi 6,000 ore di volo, eseguito centinaia di missioni e mirato a centinaia di nemici. Era in uno stato mentale, come lui stesso lo descrive, piuttosto dissociato.
All’entrata del quartier generale di Clovis, di fronte alla grande bacheca sui cui erano appuntate le foto di tanti “bersagli” umani, guardò quelle facce e disse: “Allora, chi sono gli stronzi che dobbiamo far fuori oggi?”.
Sembrava che parlasse un’altra voce, come un oscuro alter ego. “E capii che dovevo assolutamente uscirne fuori”.

Nella primavera del 2011, quasi sei anni dopo aver firmato, l’aviere esperto Brandon Bryant lasciò l’Air Force, rinunciando a un premio di 109,000 $ che avrebbe avuto se avesse continuato a volare. Gli diedero una cartellina con tutte le missioni eseguite dal suo squadrone. “Nemici abbattuti, nemici catturati, bersagli di alto valore strategico uccisi o catturati, cose di questo genere”. Lo definisce il suo…”diploma”. Non aveva mirato o premuto il grilletto in nessuna di queste missioni omicide, ma “volando” in queste missioni sentì di averle fatto lui stesso. “Il numero di queste missioni” disse “mi fece venire il voltastomaco”.
Totale dei nemici abbattuti in battaglia: 1,626.

“Dopo quel primo missile sparato, non parlai con nessuno per più di due settimane”. Bryant ha parlato con me mentre guidava il suo pick-up nero Dodge Neon, girando e girando in cerchio nella sua città, Missoula. Un adesivo “Sostieni i tuoi soldati” sul parafango, mezzo nascosto dagli schizzi del sale delle strade. L’interno della macchina era tempestato di adesivi e gagliardetti delle varie unità in cui avevo prestato servizio; sul sedile di dietro, un pacco militare strapieno di biancheria sporca e attrezzature da campo. Il grigio cielo invernale pesava lugubre sui tetti di una lunga processione di centri commerciali e grandi magazzini; le cime innevate della catena del Bitterroot si estendevano in lontananza verso sud. Guardò fisso davanti a sè come rivedendo all’infinito la scena dei suoi attacchi. “Non sapevo cosa significasse uccidere qualcuno. E guardare il dopo poi, guardare qualcuno che sanguina a causa mia?”,
Quella sera del suo primo attacco, tornando a casa, iniziò a singhiozzare. Accostò la macchina e chiamò sua madre, “E lei mi fece…’Dai, andrà tutto bene’, e io le dissi che avevo ucciso qualcuno, avevo ucciso delle persone e la cosa non mi piaceva per niente. E lei ‘Bene, è come ti devi sentire, è giusto che ti senta così ogni volta’”-

Altri componenti del suo squadrone ebbero reazioni diverse. Un operatore di sensore, ogni volta che moriva qualcuno, andava a casa e si scolava un’intera bottiglia di whisky. Un’operatrice donna, dopo il suo primo “colpo”, si rifiutò di continuare quel lavoro, anche sotto minaccia di corte marziale. Un altro pilota ebbe degli incubi dopo che vide due corpi senza testa galleggiare sul fiume Tigri. Lo stesso Bryant ebbe strani sogni in cui i personaggi del suo gioco preferito, World of Warcraft, apparivano in infrarossi.

A metà del 2011, Bryant tornò a Missoula, e fu allora che iniziò a sentirsi arrabbiato, isolato, depresso. Mentre prendeva un videogioco da Best Buy, mostrò il suo ID di militare insieme alla sua carta di credito, e un teenager dietro di lui disse “Oh, sei un militare; fratello, sei un Marine, ehi ha ucciso trentasei persone, me l’ha detto un sacco di volte. Bryant si girò e gli disse: “Stronzo, se mi parli ancora in questo modo ti ammazzo. Non mancare di rispetto alla gente che muore”. Il ragazzo sbiancò, Bryant prese il gioco e uscì. Sollecitato da un veterano del Vietnam che aveva incontrato all’ufficio locale VA, Bryant si convinse a vedere un terapista. Dopo alcune sedute, crollò: “Le dissi che volevo essere un eroe, ma non mi sento affatto un eroe. Volevo fare qualcosa di buono, ma mi sento come se avessi sprecato sei anni della mia vita”. La terapista gli diagnosticò uno stress post-traumatico (PTSD).

Era una diagnosi che non si aspettava. Per decenni il concetto di PTSD era collegato al “condizionamento da paura”: ovvero le prolungate ramificazioni psicologiche della paura della morte. Ma un termine che ora stava prendendo sempre più piede era quello delle “ferite morali”. Era come un riallineamento tettonico, uno spostamento dalla concentrazione sulla violenza causata ad un essere umano in tempo di guerra, alle proprie sensazioni conseguenti all’aver causato il male ad altri – o a quello che non si e’ fatto per evitarlo. Il concetto è attribuito allo psichiatra Jonathan Shay, che nel suo libro “Achille in Vietnam” torna indietro ai tempi della guerra di Troia. Il meccanismo di morte può anche essere diverso – diretto come una baionetta o da remoto come può essere l’Hellfire – ma i fatti di sangue che ne conseguono, ed il loro peso sulla coscienza umana, restano gli stessi. La diagnosi di Bryant di PTSD rientra perfettamente in questa concezione. E per Bryant tutto questo aveva perfettamente senso. “Io non ho affatto paura” dice ora. “E’ più come un’esperienza di schiacciamento dell’anima”.Un’esperienza che non avrei mai creduto di vivere. Non sono mai stato addestrato a togliere la vita a qualcuno”.

Nel 2011, degli psicologi dell’US Air Force completarono un’inchiesta psicologica coinvolgendo 600 operatori di droni. Il 42% delle squadre di droni riportarono stress medio/alto e il 20% esaurimento o crollo emotivo. Gli autori dello studio attribuirono questi sconcertanti risultati a un “conflitto esistenziale”. Uno studio successivo scoprì che gli operatori di droni soffrivano degli stessi livelli di depressione, ansia, PTSD, abuso di alcol e istinti suicidi riscontrabili nelle tradizionali truppe di avieri. Questi effetti sembrarono toccare le punte più alte nello stesso momento del reclutamento di Bryant, all’apice dei conflitti in Iraq. (Freddamente, per mitigare questi effetti, i ricercatori proposero di creare un’interfaccia simile al Siri, una specie di co-pilota virtuale che impersona il drone e permette ai soldati di scaricare su di essi il senso di colpa per qualsiasi cosa accada. Siri, uccidi tu quelle persone).

Nell’estate del 2012, Bryant rientrò nell’Air Force come riservista, sperando di entrare nell’ambito programma SERE (Sopravvivenza, Evasione, Resistenza, Fuga), dove avrebbe potuto aiutare ad addestrare i piloti caduti dall’aereo a sopravvivere in territori nemici. Dopo tanto uccidere, voleva salvare persone. Ma dopo un incidente durante l’addestramento, lasciò e tornò a di nuovo a Missoula. Camminava con un bastone, aveva forti emicranie e vuoti di memoria, e cadde in una profonda depressione.

Nei momenti peggiori, Bryant si faceva il giro di tutti i peggiori bar di Missoula e si ubriacava fino al totale obnubilamento di whisky e coca, per poi sparire per giorni o settimane. In molte di quelle notti prendeva il suo sacco a pelo militare, andava in un parcheggio al centro della cittadina vicina al fiume Clark Fork. C’e’ lì un piccolo parco con una struttura in legno a forma di drago, con scivoli e scalette. Ci saliva su fino in cima, completamente ubriaco, e dormiva lì, notte dopo notte.

Non ricorda più molto di quell’oscuro periodo dell’estate scorsa, ma sua madre, LanAnn, se lo ricorda bene. Per due giorni di seguito ritrovò sul tavolo della cucina una strana scatola chiusa a chiave e la metteva via nell’armadio. Il terzo giorno si svegliò e trovò la scatola aperta, con dentro una pistola semiautomatica Sig Sauer P226 carica. Terrorizzata al pensiero che potesse uccidersi, la diede a un amico che aveva una cassaforte per armi. Aveva raccontato questa cosa a Bryant solo una settimana prima. Lui già non ne aveva più ricordo.
“Ho pensato che stavamo per perderlo” dice ora LanAnn Bryant.

Qualcosa doveva cambiare. Bryant sperò che rivolgendosi alla stampa, la gente potesse conoscere e capire l’esperienza di guerra degli operatori di droni, che non era solo un “videogame” per loro. In autunno, parlò con un reporter del settimanale tedesco Der Spiegel. La storia fu tradotta in inglese e il tabloid inglese Daily Mail la raccolse, pubblicandola con l’infelice titolo di “Operatore di drone a cui era stata comandato di sparare a un bambino…decide di lasciare. La storia si diffuse a macchia d’olio.

La reazione dalla comunità dei droni fu immediata e vigorosa. In pochi giorni, 157 persone avevano cancellato Bryant come amico di Facebook.“Sei un bugiardo pezzo di merda” scrisse un suo ex-compagno dell’Air Force. “Marcisci all’inferno”. In una specie di esercizio di auto-flagellazione digitale, Bryant lesse migliaia di commenti su di lui, alcuni al vetriolo puro e carichi di recriminazioni. “Li lessi tutti, uno ad uno” dice. “Stavo cercando di abituarmi alle sensazioni negative”.Le critiche gli venivano sia da chi considerava l’uso dei droni un crimine contro l’umanità, sia da veterani di guerra che lo accusavano di essere un cacasotto. Ha avuto anche minacce di morte – senza prenderle mai sul serio – ed altri hanno detto che dovrebbe essere accusato di tradimento e giustiziato per aver parlato alla stampa. Il giorno di una delle nostre interviste, il New York Times pubblicò un articolo sulla ricerca degli Stress Post Traumatici tra gli operatori di droni. Lo osservai mentre leggeva una sfilza di commenti su Facebook di gente che prendeva in giro l’idea stessa che degli operatori di droni potessere soffrire di traumi:

-Oh, mi sono rotto una stramaledetta unghia nell’ultima missione!
-Forse dovrebbero indossare delle cinture di sicurezza…
.potrebbero chiedere il PTSD quando devono procedere alla “Raccolti e identificazione dei corpi”

E poi Bryant commentò:
-Mi vergono di aver chiamato qualcuno di voi fratelli di sangue.
-Ok, non e’ lo stesso che esserci veramente sul posto. E questo che cazzo significa?? Finchè non sai com’è veramente, finchè non sei in grado di fare un discorso o una valutazione intelligente e significativa, chiudi quella tua stramaledetta bocca prima che qualcun altro te la venga a chiudere.

L’autodifesa di Bryant—una battaglia virtuale come una vera battaglia – lo lasciò furente davanti alla sua tastiera. Quando volava nelle sue missioni, a volte si sentiva come fuso con la tecnologia, immaginava se stesso come un robot, uno zombie, come un drone. Queste astrazioni non sono coscienti; ai droni non importa quello che sono, ma a Bryant importava quello che era. Ora pensa di studiare per diventare un EMT, e magari lavorare in un’ambulanza per poter salvare delle vite umane, che è quello che ha sempre voluto fare. Non ha più sogni ad infrarossi, non gli succede più di chiudere gli occhi e vedere quelle strane ombre bianche polarizzate.

Bryant chiuse il suo laptop e andò fuori in giardino, tirando una palla da tennis al suo enorme molosso giapponese. Strisce di neve si allungavano giù attraverso le scure foreste del Bitterroot, bianche scie nel cielo assorbivano gli ultimi chiarori del tardo pomeriggio. Il paesaggio del Montana occidentale, osservò Bryant, ha una forte somiglianza con l’Hindu Kush dell’Afganistan orientale – un luogo che lui ha potuto vedere solo con i pixel, su dei monitor. Era quella una dissonanza cognitiva che spesso aveva avvertito durante le sue missioni, mentre cercava di ricordare a se stesso che il mondo è tanto reale attraverso delle immagini quanto lo sia visto ad occhio nudo, poiché nonostante i filtri della distanza e della tecnologia, causa ed effetto valgono lo stesso. Queste sono le valli su cui volano in cerchio i nostri droni. Attraverso di loro guardiamo il mondo e alla fine rivediamo noi stessi.

Matthew Power
Fonte: www.informationclearinghouse.info
Link: http://www.informationclearinghouse.info/article36647.htm

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