ancora feisbuc [contributi dalla rete]

Scusate la lunghezza, ma penso sia tutto molto interessante e arricchente la riflessione di ieri su feisbuc

Questo non lo riporto perchè è veramente molto lungo. Ma è esaustivo: chi sono i padroni di facebook, quanto guadagnano e in che modo, lo scopo per cui è stato costruito, il controllo sociale che ne deriva:
http://lucaboschi.nova100.ilsole24ore.com/2008/09/detesto-faceboo.html#more
è impressionante.
Mi conferma tutte le sensazioni provate "a pelle" e che ho riportato nel post precedente.

e poi, da
http://psicocafe.blogosfere.it/2008/09/facebook-il-rovescio-oscuro-della-medaglia.html

Che cosa spinge milioni di persone a condividere incessantemente minuto
per minuto la propria vita e altrettanti milioni di persone a
interessarsi incessantemente minuto per minuto della vita altrui?

Gli scienziati sociali la chiamano “consapevolezza ambientale” e , a quanto pare, è per molti irresistibile.

E’ una specie di consapevolezza estrema del ritmo della vita di
qualcuno altro, un ritmo mai conosciuto prima. Si può sapere quando un
contatto sente le prime avvisaglie di un raffreddore e poi scopre di
avere la febbre e poi, dopo qualche ora, si sente meglio. Oppure si può
sapere chi sta avendo una pessima giornata al lavoro, quali siti sta
visitando (con il tumblr) dove si trova fisicamente o cosa sta pensando
o se si sta facendo un panino.

Il paradosso della consapevolezza ambientale è che ogni piccolo
aggiornamento, ogni singolo bit di informazione sociale è
insignificante di per sé, anche estremamente superficiale talvolta. Ma
prese tutte insieme, nel tempo, queste microinformazioni diventano un
ritratto sorprendentemente sofisticato della vita altrui, fornendo la
possibilità di un’esperienza psicologica interpersonale del tutto
inedita.

Nel mondo reale nessuno telefonerebbe a qualcuno per dettagliargli
il fatto che sta mangiando un panino o che sta visitando un certo sito
internet o che si trova in biblioteca. L’informazione così minuta e in
tempo reale si trasforma in una sorta di lettura della mente a
distanza. E’ come se ogni contatto avesse una sorta di display
collocato sulla fronte.

Ma c’è di più. Se leggo su twitter che un contatto del mio gruppo
sta andando al bar o sta pianificando di andare a un concerto, posso
decidere di imitarlo e/o di raggiungerlo.

E se lo incontro faccia a faccia è come se non fosse mai stato
veramente lontano da me. Non c’è bisogno di chiedergli “cosa hai fatto
oggi?” perché lo sai già.

Al contrario puoi cominciare a discutere di ciò che l’altro ha
twitterato quel pomeriggio come se ci sia stata una conversazione nel
mezzo.

Si finisce per realizzare un legame sociale spesso più intimo di
quello che si ha con certi familiari o amici con cui ci si sente
qualche volta al mese. Di essi non si conoscono dettagli come una
recente emicrania di tre giorni, e non si riesce a esordire con
nonchalance con un “come ti senti oggi?”

Ma c’è un limite al numero di persone con cui si può instaurare una
forma di “amicizia” del genere? Ci sono facebooker con centinaia di
amici!

Nel 1998, l’antropologo Robin Dunbar stimò che il massimo numero
di connessioni sociali che un essere umano può avere è di 150 persone,
e diversi studi psicologici hanno confermato che i gruppi umani che si
costituiscono spontaneamente si aggirano intorno alle 150 unità,
fenomeno che è chiamato appunto Numero di Dunbar. La domanda è allora:
le persone che usano twitter o facebook possono elevare il loro dunbar
number?

In realtà le persone sembrano mantenere pressocchè inalterata nel
numero la loro cerchia di amici intimi, benchè il contatto incessante
renda i legami incommensurabilmente più ricchi.

Ciò che si accresce a dismisura è il numero dei conoscenti,
persone che si sono incontrate a un congresso, vecchi amici del liceo o
persone incontrate a una festa.

Prima dell’avvento di queste applicazioni di social network questi
legami deboli e transitori si spezzavano facilmente e uscivano
rapidamente dall’attenzione e dalla vita delle persone. Stabilito un
contatto su Facebook invece, questi fortuiti incontri del destino
cominciano a esistere, per di più in una forma inedita ed estremamente
saliente e finiscono per non essere più perduti.

E questo, si capisce, è bello e utile. Aumenta la nostra capacità
di risolvere i problemi per esempio. Si metta il caso di star cercando
un nuovo lavoro. Nella cerchia di amici può non esserci nessuno in
grado di aiutarci, ma un conoscente con cui è vivo un legame
tecnologico su facebook può aiutarci eccome.

Proprio l’altro ieri io stessa ho aiutato su Facebook un
giornalista italiano, di stanza a San Francisco, a trovare un
riferimento per un articolo scientifico che sta scrivendo. L’ho aiutato
io che non lo conosco e mi trovo dall’altra parte del mondo e non
l’hanno aiutato i suoi amici o i suoi colleghi.
C’è gente che non fa più una mossa, un acquisto, una scelta, senza aver
consultato il proprio network, che è una fonte inesauribile di
esperienze e consigli.

Un altro aspetto importante da un punto di vista psicologico, e
che spiega come possa essere possibile seguire anche centinaia di
persone al giorno, è il fatto che l’update di un facebook o di un
twitter non è come una mail, che è rivolta specificamente a noi e
richiede il 100% della nostra attenzione, che dobbiamo aprire e
valutare, e a cui, nella maggior parte dei casi, dobbiamo rispondere.

Gli update di Facebook sono tutti visibili in una singola pagina e
non sono realmente diretti a noi. Questo li rende simili ai titoli dei
giornali. Puoi leggerli oppure no.

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Sull’articolo di cui vi parlavo non si omette di citare gli svantaggi
della microinformazione in tempo reale e più in generale della presenza
on line ai tempi di Facebook.

Ma prima di farvi cenno, mi piacerebbe sapere da voi se
condividete la mia impressione che il vero salto che sta facendo la
rete oggi sia quello dal nickname al nome reale.

Qualche anno fa nei blog, nelle pagine personali, l’identità vera
dell’internauta era pressocchè totalmente taciuta. Anzi, si discuteva
del fatto che la rete consentiva una sorta di luogo sicuro per “essere”
tutte le persone che si poteva o desiderava essere.

Adesso ho l’impressione che il tabù del proprio nome e cognome
stia progressivamente tramontando e cedendo il posto a una “presenza”
super-personale. Non solo ti dico chi sono e che faccio, ma aggiungo
anche il come mi sento, con chi sono sposato, che amici ho e cosa sto
facendo in questo preciso istante. Una iper-presenza potremmo dire.

Gli svantaggi di un simile spostamento, se si sta verificando davvero, sono probabilmente numerosi quanto i vantaggi.

Su Facebook questa cosa è già una realtà, tutto il network vive della vera identità di chi lo popola.

Pensiamo per un attimo alla possibilità presente su Facebook di
taggare una foto con il nome della persona ritratta. Se un mio amico
del liceo che non vedo da 10 anni e che mi sta pure un po’ sui nervi,
si fa saltare in mente di uploadare una mia foto degli anni ’80, primo
non posso saperlo se non sono anche io sul network e secondo non posso
in teoria impedirlo, se non a posteriori.

Questo significa che qualche migliaio di persone potrebbe vedere
la mia capigliatura cotonata, di cui mi vergogno anche con me stessa,
senza che io abbia preso alcuna decisione in tal senso.

Se ci pensate la cosa ha in sé qualcosa di violento.

Un’altra cosa un po’ folle di Facebook è che puoi cambiare il tuo
status civil-sentimentale: sono single, sono fidanzato e con chi, sono
sposato e con chi. Se una coppia dovesse malauguratamente lasciarsi, i
due hanno tre strade: uscire dal network e perdere definitivamente la
possibilità di monitorare la propria “posizione sociale” sul medesimo
(cosa dicono di me, quali accidenti di foto pubblicano, ecc..), non
essere più "amici" (che, per una ex coppia che si interessa dei moti di
chiunque, può apparire un po’ estremo) oppure rassegnarsi a conoscere
il nome della nuova compagna, la sua foto, quello che lei scrive a lui
in bacheca, i video che gli manda sul superwall, insomma il loro
incessante menage a deux.

Menage che non sai mai se è autentico o sottilmente mirato a dire,
far capire, sfruculiare (come si dice dalle mie parti) l’ex partner.
C’è da diventar matti a ben pensarci! J

E’ come essere in un paesino di provincia, anche se ha la dimensione di una metropoli.

Tutti sanno tutto di tutti. Credo che la cosa possa produrre effettivamente un certo sgomento.

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Conoscere qualcuno può voler dire molte cose e non solo in termini di
profondità e quantità della conoscenza. Si possono conoscere molte cose
di una persona, ma a un grado superficiale di intimità o al contrario
poche cose, pochi dettagli, ma molto personali e intimi (mai provato a
vedere cosa accade fra perfetti estranei in una chat?)

Ma c’è un altro aspetto della conoscenza che può essere preso in
considerazione in questo ragionamento ed è la reciprocità o, potremmo
dire, la bidirezionalità: io so di te tanto quanto tu sai di me, in
termini di quantità e intimità dell’informazione?

Sui social network si può sperimentare il caso di una totale
asimmetria della conoscenza: una persona può sapere moltissimo di me
senza che io sappia altrettanto di lei, fino all’estremo di non
conoscerla affatto.

Questo dipende da quello che io rendo disponibile sulla mia vita,
dall’intensità con cui l’altro si occupa del mio profilo e dalla
opposta mancanza di attenzione che io pongo alla sua persona, digitale
e non.

Questo tipo di “relazioni” si definiscono parasociali e non sono
esclusive dei social network. Anche un blogger può essere l’oggetto
privilegiato dell’attenzione di tanti che rimangono ai suoi occhi
totalmente ignoti. Ed è sempre sorprendente scoprire che qualcuno “ti
conosce” in questo modo, che la tua “persona digitale” ti precede (e ti
sostituisce) nello spazio psichico di altri individui di cui non sai
neppure, talvolta, il nome.

Si può affermare che questi sconosciuti ti “conoscono”?

Senz’altro sanno chi sei, ma cosa sanno di te?

Quello che vuoi che sappiano certo, ma la privacy è un concetto da
rivedere completamente ai tempi di Facebook perché va trovato un nuovo
e inedito compromesso fra quello che vuoi e puoi rendere noto e le
necessità intrinseche della partecipazione al network.

Un profilo completamente privato equivale alla non partecipazione,
il disinteresse all’aggiornamento della propria pagina si traduce in un
oblio all’interno del sistema e a un progressivo allontanamento alla
periferia del nodo, con la perdita dei vantaggi insiti
nell’appartenenza.

Una partecipazione sciatta e svogliata non solo esclude, ma
restituisce un’immagine non desiderabile di sé, elemento sgradito in un
mondo dove la tua persona digitale sei tu e tu sei la tua persona
digitale.

Anche un profilo senza foto dà noia, perché viola le regole
dell’iper-presenza, così come dà una cattiva impressione un profilo
povero di contenuti.
Se non ci sei, o non ci sei al meglio, non esisti per un social network.

E’ una cosa simile alla delusione che proviamo quando non troviamo
qualcuno su google. Se non c’è, è come se non avesse fatto niente di
buono o veramente degno nella sua vita!

Mai sperimentato questo? 

Certe volte mi sono imposta di pensare che Tizio o Caio possano
essere persone di valore anche se non sono individuabili su internet,
ma che fatica scacciare il pensiero che "se non sono su internet non
hanno capito niente del mondo che stiamo vivendo!"…
 
Difendere la propria privacy si può, anche senza uscire dal network,
permettendo la visione del proprio profilo solo agli amici e
scegliendosi questi amici con criterio.

Ma anche qui, che significa “amico” su Facebook? Tutto e il contrario di tutto.

Non accettare una richiesta di amicizia viola la regola implicita
del villaggio e si carica di significati di rifiuto quasi
incomprensibili: “perché non vuole essere mio “amico”? Se “amico” sul
network significa che ci siamo incontrati tre anni fa al mare, perché
non posso essere suo “amico”? Se leggo il suo blog e lo stimo posso ben
essere suo “amico”!

E a nulla vale l’obiezione del “io non ti conosco”.

Ai tempi delle relazioni parasociali è sufficiente che mi conosci tu.

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Leggo da più parti preoccupazioni sul fatto che l’esplosione di
Facebook ucciderà il blogging e ci consegnerà, nel prossimo futuro,
l’esperienza di una nuova rete: ridotta nelle dimensioni,
miniaturizzata nell’espressione, probabilmente più “sicura” da
esplorare e vivere, ma anche conseguentemente più asfittica e
qualitativamente diversa: più cialtronesca. Un mondo ridotto, di amici
veri e finti, fra i quali il massimo dell’attività intellettuale
scambiata è la condivisione di quiz idioti e l’invio di pseudo
cocktail. Se va bene, lo scambio di foto e link, un po’di twitterate,
le solite chat con le solite e-mail.

Informazione, contatto, un po’ di voyeurismo, reperibilità e poco altro.

Prima di dire cosa ne penso io, vorrei raccontarvi una cosa che ho
visto a Padova in una piazza vicino all’Università. Un uomo sulla
cinquantina ha portato uno sgabellino di plastica bianco, ci è salito
sopra e ha cominciato a disquisire sulle magnifiche sorti e progressive
dell’Italia, partendo dal problema degli extracomunitari per arrivare
alle ingerenze del Papa sulle scelte politiche, fino all’iperuranico
rapporto con Dio di credenti e miscredenti.

Passando di palo in frasca, fra profondità e luoghi comuni,
intuizioni e banalità, ha creato presto attorno a sé un affollato
capannello di persone che, alzando educatamente la mano, richiedevano a
loro volta “lo sgabello”. Lui scendeva, lo posava sotto ai piedi della
persona che voleva intervenire, questi ci saliva sopra e diceva la sua.

Io stavo passando di là pensando ai casi miei e mi sono fermata e sono rimasta lì mezz’ora, ad ascoltare.

Io non conoscevo quelle persone e non avevo interesse né
possibilità di farlo, non mi interessava minimamente la loro puntuale
quotidianità, non mi era utile rintracciarli o ritrovarli, né
servirmene in alcun modo, non mi interessava sapere chi erano i loro
amici e non mi stava a cuore conoscere se fossero iscritti al tal
partito o alla tale associazione, né se aderissero a una certa
improbabile causa. Però avevo piacere di stare ad ascoltare. Per
dissentire, per concordare, per far mia un’esperienza di vita che non
posso sperimentare o per guardare il mondo per un minuto con gli occhi
di un altro.

A quello speaker’s corner italico, improvvisato e spontaneo, non
ci si scambiava “contatti”, si scambiavano opinioni, riflessioni.

Delle opinioni e delle riflessioni non si può fare consumo.
Necessitano di tempo e di approfondimento, di attenzione e di cura.
L’atteggiamento mentale di chi esprime e di chi ascolta un’opinione è
cosa strategicamente diversa da quello di chi produce o reagisce a
un’informazione.

Quando a malincuore sono andata via, ho pensato che i blog sono
come quello sgabello bianco. Uno si porta il suo da casa, ci sale sopra
e comincia a dire, a dei perfetti estranei: “io la penso così, voi?”

Secondo me, fino a quando si formeranno agli angoli delle strade
capannelli di gente che vuole ascoltare un uomo sconosciuto dire quello
che pensa, i blog sono salvi.

I blog che sono stati concepiti per condividere opinioni e riflessioni, naturalmente.

Quelli che probabilmente chiuderanno (e stanno chiudendo) sono: o i
blog di chi si è stancato di stare sullo sgabello (perché star lì
cinque anni a parlare è una fatica, si sa), o i blog che non sono mai
stati tali, quelli aperti e utilizzati solo perché non si conosceva,
tecnologicamente parlando, un altro modo di crearsi un point of
presence sulla rete.

Questi pseudoblog saranno schiacciati da Facebook, sono d’accordo,
perché esso è infinitamente più semplice, rapido, usabile, e assolve
egregiamente a tutti gli scopi che gli pseudoblog si prefiggevano, e ne
aggiunge di nuovi.

Però chi vorrà continuare (o cominciare) a esprimere opinioni, e
non solo un angusto “sono qua”, continuerà ad aprire e curare blog, e
chi avrà piacere di ascoltare opinioni continuerà a leggerli.

Io la penso così, voi?

sempre da http://psicocafe.blogosfere.it/2008/10/facebook-uccidera-i-blog.html


3 Risposte a “ancora feisbuc [contributi dalla rete]”

  1. twitterare, e che è?????
    sono dell’opinione che è, e rimane – blog e quisquilie varie – una grande possibilità di trascorrere piacevolmente un po’ del tuo tempo con persone che tu scegli, non il contrario. quanto alle contaminazioni personali, lasciamole agli altri… la vita vera è, ahimè, tutt’altro…

  2. Una riflessione molto interessante. Devo pensarci bene su quel 150 unità come relazioni sociali, a me sembrano tantissime, ma forse si mette nel gruppo sia le persone "importanti" che gli sconosciuti incontrati per caso e con i quali non si va oltre il "buongiorno/buonasera". Il mio gruppo ideale di persone si ferma a 10 unità.
    Molto acuto anche il pensiero sull’orgoglio della propria identità reale, il voler farsi conoscere o riconoscere da tutti per dimostrare di esistere "facebooko ergo sum": sarà per quello che io invece ho conservato una identità fittizia anche su FB? 
    Lunga vita ai blog!
     

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