Col potere ai professori venne l’inverno della nostra civiltà.

Il weekend si preannuncia piuttosto piovoso un po’ ovunque. Magari sarà l’occasione per fare qualche lavoretto in casa e/o per dedicare qualche minuto alla lettura.

L’altro giorno ho trovato in rete  questo articolo di Giulio Sapelli.

Ha un anno, essendo stato pubblicato il 22 gennaio 2012, ma la sostanza della situazione non cambia. Anzi, l’evoluzione della situazione economica e politica del paese non ha fatto altro che confermare il quadro che viene delineato in questo scritto.

Potrei limitarmi a mettere un link, ma nella rete i siti vanno e vengono. E poi più alcune keywords vengono ripetute, e più i motori di ricerca le prendono in considerazione. Quindi, quando penso che uno scritto dovrebbe essere diffuso il più possibile, copio e incollo sul blog.

E’ lungo, per gli standard di lettura sul web. Io me lo sono scaricato e messo sul lettore di e-book. In formato testo si legge benissimo. Ma in ogni caso, vale la pena di dedicargli un po’ di tempo.

Buona lettura.

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I. Italia e Germania: le unificazioni nazionali tardive

Il governo Monti rimarrà a lungo nella memoria degli storici e dei sociologi futuri. Anche gli economisti dovranno sottoporsi alla prova dei fatti per le conseguenze che ne deriveranno sul piano della crescita e delle sue diverse, confliggenti, teorie. È un passaggio decisivo della storia italiana, di grande importanza e non ci deve far velo la mediocrità dei personaggi che lo interpretano. Lo spirito assoluto si serve spesso dei frammenti del finito per realizzare il Suo cammino. I nostri tempi ne sono la prova. Per comprendere il passaggio in corso occorre ricordare che la storia d’Italia è sempre stata, più di quella di altre nazioni, sempre un intreccio di storia nazionale e storia internazionale. Come tutti gli stati a recente unificazione, del resto. Fuori d’Europa e in Europa.

Pensiamo, per esempio, alla differenza di percorso nella storia mondiale del retaggio in America del Sud dell’impero spagnolo, da un lato, e di quello dell’impero portoghese, dall’altro. L’implosione del primo ha condotto alla formazione di stati deboli e frammentati anche al loro interno tra centro e periferia e che sono sempre stati soggetti alle decisioni economico-diplomatiche delle potenze europee prima e nord americane poi. Il Regno Unito ha “creato” il Cile: i conflitti tra di esso e il Perù e la Bolivia sono sempre stati, nell’Ottocento e nel primo Novecento, in larga misura determinati dalle logiche di controllo dei mercati e dei giacimenti di materie prime che interessavano le grandi multinazionali inglesi. Poi sarebbe venuta la volta degli Usa; ma è storia sin troppo nota e che s’inserirà rapidamente nei gironi infernali della guerra fredda e del conflitto con l’Urss nel secondo dopoguerra del Novecento.

L’impero portoghese, invece, non solo non crollò frantumandosi, ma si rigenerò nel Brasile rimasto nuova corolla dell’impero e poi del regno lusitano in Sud America senza mai perdere l’unità che ne caratterizza, in definitiva, la forza sub specie stato federale, sino ai giorni nostri. Giungendo, così, a differenza degli altri stati, ad assumere un ruolo di protagonista internazionale, tenendo insieme e non dividendo nelle sue storie e nella sua storia, questione nazionale da questione internazionale.

I BRIC, in effetti, sono tutti stati non a tardiva unificazione, ma a lunghissimo passato imperiale, scalfito dalle onde del tremendo e lunghissimo secolo delle guerre civili europee. Scalfito, ma non distrutto, che possono quindi ben tenere unito il nesso nazionale con quello internazionale.

L’Italia, invece, non è la Spagna e non è la Francia: cioè stati a lunghissima storia nazionale. Una storia che si perde nella notte dei tempi. In nessuno dei due paesi si celebrano anniversari di fondazione della nazione… L’Italia non è neppure il Brasile. Come la Germania, l’Italia, invece, sorge da un intreccio fittissimo di relazioni e di battaglie diplomatiche internazionali che ne decidono il “destino unificatorio” in un brevissimo lasso di tempo, in meno di un secolo, in pochi decenni, dopo il Congresso di Vienna e le rivoluzioni del 1848.

La Germania, come ben aveva visto il grande Federico Engels in Po und Rhein, sorge dalla spada d’acciaio degli Junker prussiani che sono gli eredi delle tribù germaniche descritte da Tacito («adorano gli alberi, spezzano il pane con i denti…») che fermarono Roma al vallo di Adriano e cambiarono così la storia d’Europa e del mondo, ponendo di fatto le basi storico- concrete per l’avvento del nazismo secoli e secoli dopo.

La Germania sorse da una guerra vittoriosa contro la Francia e da una unificazione che è un modello di creazione della politica di potenza nel cuore dell’Europa. L’Italia, invece, sorse dalla «spadoletta di latta» – diceva appunto Engels – dei Savoia e per un gioco, magistralmente descritto da Rosario Romeo e da Denis Mack Smith, tra Inghilterra e Francia per il dominio del Mediterraneo, con lo sfondo del palcoscenico disegnato dai rapporti tra la cattolicissima Austria e il turrito dominio pontificio di Roma.

Nazioni a unificazione tardiva che tutto debbono alle relazioni internazionali, quindi, ma con diversissime radici storiche e destini futuri. Entrambe, in ogni caso, a debole consolidamento democratico ed esposte sempre al destino di sottrazione di sovranità nei momenti topici della loro storia: e per entrambe questa sottrazione di sovranità ha la sua acme nel secondo dopoguerra del Novecento. Le storie nazionali si dividono decisamente, tuttavia, e definitivamente, dopo il crollo dell’Urss. La Germania ritrova la sua temuta centralità dominatrice e trasforma l’unione monetaria europea in una vittoria pacifica sul continente.

Ma andiamo con ordine. Il problema, infatti, è quello che ci fa dire, guardando alla storia del Novecento – un secolo lunghissimo di guerre civili di cui gli europei, in fondo, sono ancora oggi protagonisti attraverso la crisi dell’euro e il conflitto monetario e sociale tra la Germania e tutta l’Europa – è quello che ci fa dire che la Germania tutto deve sempre al sostegno internazionale. Ma sempre essa opera, come ha recentemente ricordato Helmut Schimdt in un discorso straordinario dinanzi all’assemblea della SPD nel dicembre 2011, come se tale sostegno non si fosse mai verificato. E questo perché, aggiungo io, la Germania nel Novecento, ha sempre perso tutte le guerre e ha sempre vinto tutte le paci, grazie all’eccezionale sua alta produttività del lavoro, frutto del disciplinamento sociale che è proprio della sua cultura antropologica. L’alta propensione dinamica agli investimenti, in questo contesto, costituisce il segreto dell’industria e dei servizi avanzati della Germania del secolo che viene, come di quelli che furono.

L’Italia, invece, tutto deve alla sua posizione geografica e alla guerra fredda, prima come antemurale contro il comunismo e oggi come antemurale contro le conseguenze delle primavere arabe. E tutto deve, non all’alta produttività del lavoro, ma all’eccezionale fascio delle capacità personali che sovradeterminano da sempre la sua storia, tanto più ora che i grandi macroimpulsi del capitalismo monopolistico di stato sono venuti meno per via delle privatizzazioni senza liberalizzazione degli anni novanta del Novecento.

II. Questione nazionale e questione internazionale

In Italia l’intreccio tra nazione e internazionalizzazione opera sin dalla sua nascita come stato – non dirò come nazione – e opera ancora oggi. Ma quell’intreccio non è mai stato culturalmente condiviso. E soprattutto esso non ha mai avuto conseguenze positive sulla crescita economica, se non meccanicamente, seguendo cioè i cicli del commercio mondiale. Piuttosto, quell’intreccio si è rivelato un intreccio predatorio sul piano del capitale fisso e intellettuale dall’Italia secolarmente accumulato. E questo si è verificato ogni volta che esso raggiungeva una acme che poteva essere potente risorsa competitiva nell’agone internazionale. Subito si provvedeva a castrare il paese, lo stato, di tale risorsa.

Non è mai esistita, in tal modo, una storia nazionale che fosse sempre anche virtuosamente storia internazionale e che per questo si disvelasse come una variante virtuosa del processo di crescita economica. In Italia l’intreccio di nazionale e di internazionale è sempre stato vizioso nella seconda metà del Novecento. Basterà pensare all’attacco portato ad alcune posizioni chiave della nostra collocazione nella divisione internazionale del lavoro che sono state evidenti a partire dalla ricostruzione economica degli anni cinquanta e del miracolo economico degli anni sessanta novecenteschi: la rapina della divisione elettronica dell’Olivetti da parte di Fiat e Mediobanca alla morte di Adriano, l’assassinio di Mattei, la messa fuori gioco di Ippolito nel campo del nucleare per un’accusa ingiustificata nei confronti della moglie; sino a giungere alla recente spoliazione dell’industria nazionale per mano di privatizzazioni senza liberalizzazioni che hanno eliminato dall’agone della concorrenza mondiale tanto la siderurgia a ciclo integrale quanto la chimica etilenica, sino a giungere all’indebolimento di una delle più forti industrie telefoniche a livello mondiale.

Da questo punto di vista il governo e il sistema emerso con Berlusconi alla metà degli anni novanta del Novecento è stata una profonda cesura con il nesso tra storia nazionale e storia internazionale. Nel senso che il versante nazionale ha prevalso su quello internazionale. In primo luogo per la caduta dell’Urss e il momentaneo disorientamento sul destino geo-strategico dell’Italia che colpisce gli Usa dopo il crollo dello stalinismo internazionale.

Non a caso, l’inizio degli anni novanta del Novecento, con il ribaltamento del rapporto tra politica e magistratura nei centri nevralgici del potere economico (Milano) e quindi politico, impone una ridefinizione del rapporto tra politica ed economia. Un rovesciamento che pare inevitabile per rispondere alla distruzione dello stato amministrativo per mano dei partiti e della cleptocrazia economica e politica che quella spoliazione ha determinato, dando vita a una sorta di irreversibilità tra imprenditori assistiti dalla corruzione e politici mantenuti dalla spoliazione e dal neo patrimonialismo. Tutto ciò imponeva ed era insieme determinato dalla distruzione dei partiti di massa, con l’emersione dei partiti arcipelago a forma neo-caciquista. Ossia personalistica. Di essi gli emblemi più significativi sono stati l’arcipelago di Silvio Berlusconi da un lato e di Romano Prodi dall’altro.

III. La specificità italiana è eterogenea rispetto all’egemonia tedesco-europea

La specificità italiana fu che il nesso tra nazione e internazionalizzazione fu rifiutato dall’arcipelago berlusconiano. Per quale ragione? Perché esprimeva l’emersione di tutta la specificità antropologica del modello italiano di crescita. Si scontrava, il modello fondato sulla piccola impresa e sul lavoro in frantumi, come dirò dopo, con il legame internazionale subalterno – non solo sul piano economico – maturato in lunghi decenni. Il mercato unico europeo mascherò tale a-sincronia, ma non poté farlo a lungo. Proprio il rapporto con la Germania non poteva che portare la differenza dei modelli di crescita a uno scontro irreversibile. Si trattò di una sorta di effetto contro-intuitivo di formidabile forza: il “cigno nero” che appare sulle ali della storia europea.

Napoleone era apparso a Hegel prima di Jena come l’incarnazione di un destino assoluto. L’unificazione tedesca del secondo dopoguerra del Novecento, il nuovo Napoleone che va trionfante alla battaglia, fu ignorata da tutti noi per ciò che essa, invece, era in verità: il ritorno dell’assoluto nella storia europea, un assoluto conflittuale e non pacifico, anche se solo –fortunatamente – con le armi dell’economia. (Hegel è un prodotto rarissimo della storia dello spirito).

È noto, infatti, che il risvolto anti-tedesco in questo progetto di unione monetaria era evidente: a un Helmuth Kohl che voleva l’unificazione della Germania a parità di valore del marco tra Est e Ovest creando in tal modo una nuova centralità geostrategica nel cuore dell’Europa, la Francia di Mitterrand e l’Italia di Andreotti opposero l’euro, per tentare così di amalgamare il blocco tedesco nella pozione bollente del brodo europeo, avendo per chef le banche d’affari internazionali.

Qualche Hegel di più sarebbe estremamente utile anche nella politica delle relazioni internazionali. La conseguenza, invece – ora lo sappiamo tutti, adesso che la crescita è finita e la crisi disvela tutte le rughe di un progetto nato malato di un virus mortale – la conseguenza di ciò fu il take over tedesco sull’intera Europa. Per via deflattiva: l’unica che poteva amalgamare il blocco nella pozione raffreddatissima, vista l’alta produttività totale dei fattori di produzione, irraggiungibile sia per la Francia sia per l’Italia e per tutta l’Europa del Sud.

IV. Il legame dell’euro e i due italici blocchi

È in questa situazione che il nesso nazione-internazionalizzazione si rafforza, ma non organicamente. Piuttosto impone un’unica moneta estera a tutti gli stati europei: l’euro. Un gigantesco legame simile a quello tra peso e dollaro nell’Argentina pre-default di Menem e Cavallo tra anni novanta (novecenteschi) e inizio del nuovo millennio. Una sorta di rete che imprigiona e impaccia in ogni movimento tutte le nazioni europee, sotto l’usbergo di una banca centrale tedesca, o europea.

È in questa situazione che il nesso tra nazione e internazionalizzazione, un’internazionalizzazione che ora vuol dire moneta unica e burocrazia unica europea, si mantiene monetariamente, ma in realtà si spezza nei fatti e politicamente allorché il centrodestra (Lega e Forza Italia) conquistano, in un sistema poliarchico squilibrato, il potere politico. In realtà l’unità di quello storico nesso è messa in discussione.

Si spezza a ragione della vittoria elettorale e culturale, sul piano antropologico, del blocco sociale ed economico più anti-tedesco che mai si potesse immaginare: che cosa hanno a che fare gli attori economici che un tempo vivevano di svalutazioni competitive ora impossibili, con il sistema economico-sociale tedesco? Si tratta di piccole e piccolissime imprese (che sono un patrimonio meraviglioso di virtù del lavoro, di creatività, di amore per le persone che in forma dipendente in esse lavorano), di proliferazione di lavoro autonomo, ma anche di precarietà del lavoro, di lavoro nero, di aumento dei differenziali di crescita tra nord e sud, di espansione dell’illegalità mafiosa nonostante la lotta condotta da segmenti importantissimi dello stato contro di essa, di evasione fiscale.

Non è un caso che mentre questo amalgama antropologico-economico si dipanava, con derive politiche trasversali e profonde differenze culturali e sociali (non dimentichiamolo), a esso, di fatto, veniva contrapponendosi quello che possiamo chiamare il “sistema istituzionale dell’economia”: i poteri che io chiamo “situazionali di fatto” e che danno il volto alla poliarchia. Mi riferisco alle poche e colluse grandi banche capitalistiche, alle pochissime grandi imprese, alle poche imprese veramente internazionalizzate. Questo sistema economico e di potere di fatto, appunto, per via dei legami internazionali necessari e inevitabili costituitisi in ragione dell’unificazione europea, non poteva che sorreggere ed essere sorretto da un altro blocco politico pur sempre neo caciquistico e personalistico: quello raccolto attorno al PD e al Terzo polo e alle meteoriti che ruotano in questo sistema di pianeti. Ma si trattava e si tratta di una internazionalizzazione amministrativa e monetaria, (a questo è ridotta l’Europa…nessun Manifesto di Ventotene…).

Rimangono le quote ingentissime di sottrazione della sovranità nazionale e la creazione di una sorta di stratificazione del diritto, dell’economia in specie, secondo la formula, di Alberto Predieri, del droit acquis, del diritto stratificato e accumulatosi disordinatamente in una orgia di legiferazione a più livelli. Di qui l’Europa come Leviatano burocratico: bersaglio ideale per il neo-populismo di sinistra e di destra.

A questo neo-populismo si contrapponeva e si contrappone un blocco tutt’affatto diverso, già prima evocato. Quel blocco che nel legame internazionale, nel suo organico rapporto con il mercato finanziario internazionale, si propone come un interlocutore ineliminabile sul piano dell’economia con i poteri visibili e invisibili che ci hanno condotto prima alla creazione dell’euro e che ora guidano l’oligopolio finanziario mondiale che ne deciderà le sorti.

È un potere fortissimo che nel solo suo porsi ripropone, per certi versi, la distonia che esisteva un tempo tra grande e piccola impresa. Ricordate l’accordo sul punto unico di scala mobile voluto alla metà degli anni settanta del Novecento tra Gianni Agnelli, Presidente di Confindustria, e il sindacato dei lavoratori? Quel sindacato trasformatosi viziosamente per via del sessantotto e dell’autunno caldo? Pose le basi per la disintermediazione delle industrie che non ne sostenevano i costi e dell’inflazione che colpì i più deboli attori del sistema economico, gli ultimi. È da allora che la stessa sinistra muta il suo volto: quegli umili e quei deboli non riesce più a rappresentarli, ed essi confluiranno poi nelle braccia della Lega Nord e di Silvio Berlusconi.

Del resto, che ciò potesse essere il destino del movimento operaio italiano era già lucidamente descritto in un dimenticato discorso di Palmiro Togliatti tenuto a Reggio Emilia nel 1947, e non a caso poi pubblicato con un titolo che il Migliore volle che fosse: “Classe operaia e ceti medi”. Quel legame in effetti si mantenne, ma tutto declinato in un senso diverso da quello ipotizzato da Togliatti: la classe operaia e i ceti medi produttivi si sono via via spostati, salvo poche isole nel centro Italia, verso il blocco che si costituì sulla destra dello schieramento politico e che io definisco anti-prodiano. Quello prodiano, di fatto, rappresenta i ceti medi improduttivi e la borghesia medio-colta di solito economicamente parassitaria. E, bisogna dirlo, anche una moltitudine di brava gente – il popolo in generale ex comunista e cattolico di orientamento democratico cristiano di sinistra – che ritroviamo tuttavia in tutti i blocchi politici nazionali e che continua a vivere delle antiche sub-culture politiche costituitesi prima della slavina dell’euro e del giustizialismo.

Rimane la sostanza del problema, una sostanza che ora emerge prepotentemente. La crisi economica mondiale ha drammaticamente aperto la forbice tra la macro-rigidità monetaria, potentissima, e la micro-flessibilità dell’economia reale, debolissima, che non riesce più a comporre un sistema di fattori produttivi atti a garantire la crescita. Anche perché quella macro-rigidità si accompagna a un fanatismo istituzionale ed ideologico liberistico, che impedisce a un nuovo capitalismo monopolistico di stato di costituirsi come vettore supplente e sussidiario a favore di quella debolezza prima evocata. Questa è stata la conseguenza più nefasta della cleptocrazia delle classi politiche e del loro neopatrimonialismo: hanno distrutto lo stato amministrativo e ne hanno fatto lo stato dei partiti e l’hanno spogliato delle sue prerogative imprenditoriali, spoliazione in cui non a caso si è distinto più di tutti Romano Prodi e il suo blocco di potere: di quello stato, che un tempo era uno stato imprenditore virtuoso, non è rimasto più nulla.

La leggenda che sostenne quella spoliazione e la rese legittima culturalmente è quella del default che avrebbe dovuto inesorabilmente colpire l’Italia nella prima metà degli anni novanta. Non a caso euro, privatizzazioni senza liberalizzazioni, distruzione giustizialista dei partiti e creazione dei partiti personali neo-caciquisti fanno un tutt’uno.

V. La necessità di un nuovo legame tra nazione e internazionalizzazione

Per carità, non si tratta di un piano organico, di un disegno. La storia s’invera scompostamente, come una nave in tempesta e con il capitano e i nostromi completamente ubriachi, dove in un breve lasso di tempo si scambiano i ruoli: quelli che denunciavano i ladri di partito si trasformano in partito, quelli che si alleavano con i giudici che si ergevano vittoriosi diventano loro succubi, mentre quello che ancora rimaneva dell’establishment politico era pieno di angoscia, di timori e di incertezze e solo cercava una stabilità, quale che fosse.

La crescita economica mondiale, che durò ancora fino ai primi anni del nuovo millennio, stemperò paure, ansie, contraddizioni, trasformò le delusioni spesso in certezze, gli entusiasmi in fanatismi. Non ci si accorgeva che la divisione del paese in due blocchi economici e politici contrapposti avveniva in un continente intero, l’Europa, e non solo in Italia. E avveniva sotto l’usbergo di una moneta unica che via via che la crescita si trasformava in crisi emergeva come un volto minaccioso: il volto di una moneta senza stato, fatto che mai si è visto nella storia prima degli sfortunati anni in cui siamo chiamati a vivere.

Da questo punto di vista, i nostri tempi sono i tempi della verità: la crescita economica mondiale è terminata. Inizia una crisi senza precedenti, sia finanziaria sia industriale. L’epicentro di questa crisi risiede negli intermediari finanziari e quindi nelle banche. La periferia di questa crisi è periferica in quanto sismicità, ma è centro per la vita quotidiana di milioni di persone: sono le piccole medie imprese prima evocate e tutta quella foresta di classi medie prima ricordate. Gli operai, che oggi non possono più dirsi classe per sé, gli operai, sono il punto più fragile della costruzione di cristallo che sta andando in frantumi: l’ampliamento della disoccupazione strutturale è la campana che suona a martello con lugubri echi.

È in questo contesto che, se ci poniamo nella valle in fondo alla collina, vediamo di nuovo passare un cavaliere. Noi non siamo Hegel. Lui non è Napoleone. Lui è il professor Monti, professore anche se con una bibliografia esilissima. Va in bicicletta, con la schiena eretta e percorre una strada senza curve, così da non dovere mai muovere il busto. È la bicicletta del nuovo legame che s’affaccia sulla scena dell’italico mondo: il legame tra nazionale e internazionale.

Esisteva precedentemente quello impersonificato da tutto ciò che la tradizione italiana aveva reso manifesto: il legame concretatosi nel blocco sociale, politico, culturale guidato da Silvio Berlusconi. Usava il Suv, non la bicicletta. Era un legame intimamente contraddittorio. Ma rappresentava e rappresenta ancora (ma solo in parte, perché quel blocco sta franando tumultuosamente) le forze più dinamiche e laboriose del paese. Artigiani, commercianti, operai tutti iscritti alla CGIL e alla CISL e che eppure votano per lui e la Lega. Ma anche alti burocrati di stato, dello stato spogliato ma immarcescibile nei suoi difetti, nelle sue collusioni tipiche dello stato “spartitorio”, sia nella fisiologia del blocco berlusconiano sia di quella del blocco prodiano.

Il nesso nazione-internazionalizzazione, impersonificato dal blocco berlusconiano, non ha funzionato. Non poteva funzionare perché era eterogeneo rispetto alla disciplina tedesca richiesta all’Europa. Eppure il suo capo indiscusso aveva operato alcune magistrali operazioni sostitutive di questa organica eterogeneità. Ne ricordo quattro.

La prima: il legame con la destra repubblicana nordamericana, legame distrutto dalla vittoria di Obama. Il secondo: il legame organico con l’oligarchia raccolta intorno a Putin, legame indebolito dalla necessità storico-generale che la Russia ha di avere come punto di riferimento la Germania, ma non la Germania della Merkel, ma la Germania europea, di Kohl, di Schroeder e di Schmidt (non a caso Schroeder è l’ambasciatore di Putin). Il terzo: un legame organico con gli stati dell’Africa del Nord, con una operazione politica che ha avuto il suo punto più alto nella folklorica ma efficace unità di intenti con Gheddafi. Ma questa unità di intenti è stata distrutta dalla guerra libica e dal venti delle primavere arabe. Il quarto elemento di questo schema sostitutivo avrebbe dovuto essere l’alleanza con la Francia, concretatasi con la guerra di Libia, guerra che assumeva una funzione antitedesca, per il diniego della Germania di impegnarvisi. E questo forse è il contesto che meglio ha fatto esaltare le capacità del sistema Italia di connettersi e di volgere in positivo i momenti di crisi.

Queste quattro azioni, però, si sono rivelate insufficienti per consentire al blocco eterogeneo al dominio tedesco di mantenersi al potere. Perché? Per una sostanziale mancanza di realismo, ossia per la sottovalutazione degli sconquassi che stava producendo la guerra franco-tedesca che si svolgeva sotto le vesti di una nuova campagna d’Italia per dividersi le spoglie di ciò che rimane di redditizio e di attraente economicamente nel nostro Bel Paese.

Sarebbe stato necessario tenere il punto del rapporto con i francesi in alcune partite di ordine generale, ossia se si voleva sconfiggere la Merkel sul piano della politica economica in Europa, bisognava far vincere la Francia in Italia per farsene un solido alleato. E invece, grazie alle bizzarrie soprattutto dell’ex ministro Tremonti, ai francesi non si son date tutte le vittorie che essi avrebbero voluto. Mi riferisco alla battaglia per la conquista di Generali, dove un loro ambasciatore, l’amletico Geronzi, è stato mortificato e umiliato, così come lo era stato di fatto in Mediobanca. Paradossale, ma i francesi hanno vinto solo la battaglia dell’energia, nelle terre del nord, con la golosa presa di Edison, che però gli è stata concessa dal successore del sunnominato Tremonti, il quale appartiene alla schiera del nuovo Napoleone. Naturalmente i francesi non hanno di che dolersi: la grande distribuzione e una parte del sistema bancario è già nelle loro mani. I tedeschi, intanto, attendono, seduti sulle poltrone di Piazza Cordusio, nella sede di Unicredito a Milano.

Mancanza di realismo, dicevo, ma non solo per aver irritato la Francia sul piano nazionale, ma soprattutto per non aver compreso che la politica dell’austerità e del rigore era la medicina necessaria da bere per poter, dopo, sconfiggere l’egemonia tedesca. Per il momento bisognava accettare e bere la pozione, subito, senza indugi. Naturalmente, come diceva il Tasso: «Cospargendo di soave licor la medicina».

Chi ha cosparso di soave licor la medicina è stato il Capo dello Stato. Napolitano aveva già compreso l’impossibilità di affrontare il nesso tra nazione e internazionalizzazione con un governo in carica come quello del blocco politico-sociale disorganico all’egemonia tedesca. Le sue preoccupazioni si erano accentuate, inoltre, allorché quello stesso blocco aveva reso manifeste le incertezze sul piano dell’alleanza internazionale che è fondamentale per la stabilità del potere nel nostro paese: la Nato e il rapporto con gli Usa. Mi riferisco ai tentennamenti in merito alle azioni di bombardamento da realizzarsi in Libia rese esplicite dal ministro della difesa, La Russa e da Berlusconi medesimo. Chi non rispetta i sentieri tracciati dai rapporti militari che discendono dall’alleanza con gli Usa è soggetto a seguire la sorte di coloro che toccano i fili dell’alta tensione: la morte, in questo caso non fisica, ma politica.
È proprio vero che la storia non insegna niente a nessuno. Craxi cadde sostanzialmente per le vicende di Sigonella, Andreotti per lo scontro con Reagan in merito alla Libia (di nuovo) e D’Alema fu incoronato da Cossiga perché era l’unico deciso a bombardare la Serbia. A tutto ciò si aggiunga la ripresa della drammatizzazione economica (default, crisi sociale, disordini di massa, etc.) con un’accorta campagna di stampa. Dinanzi a ciò stava e sta l’autorevolezza morale conquistata da Giorgio Napolitano in tanti anni di lotta politica e la sua affidabilità atlantica cementatasi linearmente già da molti anni. Ed ecco che la variante decisiva necessaria per riallacciare in forma realistica, non virtuosa, ma realistica, il nesso tra nazione e internazionalizzazione, si è presentata.

Quel nesso si era spezzato e ora doveva ricomporsi. Ciò era ormai evidente a tutti, anche per la crisi intercorsa tra il ministro Tremonti, non ambasciatore alla Schroeder ma certo fiduciario della signora Merkel, e il suo Primo Ministro. E qui emerge una variante tipicamente italiana. In tutti i momenti di crisi istituzionale – e questi sono anche momenti di crisi internazionale – in Italia emerge il ruolo del Presidente della Repubblica. Ecco emergere il suo ruolo di capo supremo delle forze armate, di capo supremo del potere giudiziario; di poteri che, allorché il sistema parlamentare di governo entra in crisi – perché alla crisi del nesso nazione-internazionalizzazione si aggiunse una crisi parlamentare dilacerante del governo Berlusconi – il potere del Capo dello Stato emerge con grande forza. La crisi così si consuma, nella ricostituzione di un realistico clima di fiducia, sia con l’egemonico potere tedesco, sia con l’ammaccato potere francese. Sottolineo che il nesso nazione-internazionalizzazione di cui si parla qui è quello tipico di cui discutiamo quando parliamo di storia e teoria dei trattati internazionali. Si tratta di riallacciare relazioni diplomatiche che hanno naturalmente un contenuto economico, ma un contenuto economico istituzionale, e non di mercato.

Mi spiego: in gioco, in sostanza, è la possibilità di rinegoziare il trattato di Maastricht e lo statuto della Banca Centrale Europea. Il compito è passare da una politica deflattiva a una inflattiva, e di rinegoziare tutto il rinegoziabile per ampliare le aree di micro-flessibilità nazionali e di ridurre tutto quello che è possibile della macro-rigidità monetaria sovranazionale. Tutto il resto è pura invenzione, è propaganda ideologica che però non riesce a trasformare il professore in bicicletta in risolutore del problema. La bicicletta, in effetti, era quella che aveva Romano Prodi, una bicicletta che gli aveva dato l’oligopolio finanziario internazionale affinché lo rappresentasse in Italia e, tramite le banche e ciò che rimaneva della distruzione dell’Iri, si potesse perseguire un’integrazione perfetta tra le volizioni elettorali italiane e i propositi di quell’oligopolio.

Ora la questione è più difficile. L’oligopolio finanziario mondiale, che comunemente si chiama mercato, ha perso la fiducia sia in Berlusconi sia in Prodi perché ha perso la fiducia nell’euro come zona economica e moneta possibile. L’oligopolio non viaggia in bicicletta, ma in auto elettriche, e tenta l’assalto all’euro perché vede l’Europa come una zona economica periferica, non più come una zona centrale per la crescita, che si è ora irreversibilmente spostata nel Pacific Realm. Ecco che allora il nesso nazione-internazionalizzazione richiede una saldatura che porti a unità la necessità di superare la crisi parlamentare e insieme di ricostituire un rapporto realistico con il potere tedesco.

VI. Il ruolo del Presidente della Repubblica e il professor Monti

Di qui la scelta di Napolitano non poteva che cadere sul professor Monti, allorché decise di perseguire una via non linearmente politica, ma innovativa. Sulla quintessenza della centralità politica necessaria tra due poli parlamentari, quasi paritari numericamente e opposti l’un contro l’altro da una sorta di guerra civile ideologica, si giocava la partita. Ebbene: il professor Monti è la quintessenza della morte dell’ideologia. È il superamento della medesima nel mondo iperuranico della foresta pietrificata delle idee, ma nel contempo è l’esponente del blocco poliarchico italico organicamente europeo: grandi banche, grandi scuole internazionali di business, grandi società di consulenza, grandi cattedrali del pensiero semplice che, se non riescono a governare i sistemi complessi, sono capaci in sommo grado, tuttavia, d’esaltarne le progressive sorti e di trarne ogni utile possibile.

La sua nomina a senatore a vita, del resto, storicamente va messa in relazione comparativa con la nomina da parte di Cossiga di Gianni Agnelli. Oggi siamo scesi d’un gradino: Cossiga sta a Napolitano per affidabilità atlantica come Agnelli sta a Monti come specchio dell’establishment economico che oggi, poliarchicamente, domina l’Italia. Del resto, vi è anche un’altra situazione di particolare specificità in questa nomina, e riflette tutta la drammaticità della situazione in corso.

Monti, non meccanicamente, s’intende, ma culturalmente e sociologicamente, rappresenta proprio l’epicentro del sistema di potere che oggi è in crisi in Italia: le grandi banche e i loro legami con il mondo produttivo, universitario, in definitiva sociale. Questa è la sua intrinseca debolezza, a mio parere molto più importante di quella che taluni fanno rilevare, cioè il condizionamento che sul suo governo possono esercitare i partiti che pur devono votarlo in parlamento.

Tuttavia questo suo rapporto con i partiti costituisce una vicenda scientificamente interessantissima. Infatti, quella che si è determinata in Italia con la sottrazione della sovranità al parlamento e la sua attribuzione transitoriamente al Presidente della Repubblica, è una sorta di dittatura “romana”, ossia una situazione di condizionamenti a cui è sottoposto il potere parlamentare da parte di un potere non parlamentare ma misto, tecnocratico-parlamentare. I componenti del governo rappresentano solo in parte i partiti, e quindi gli organizzatori della democrazia, e quindi il popolo sovrano. I ministri, infatti, sono ostentatamente tutti tecnici, e si presentano come indipendenti dai partiti. Sino a ora in Europa, una situazione siffatta si era presentata solo sub specie militare in Turchia e per certi versi anche in Portogallo. In questi due paesi, in Turchia per tre volte (nel 1960, nel 1970, e dal 1980 al 1983) e in Portogallo una volta (dal 1975 al 1978), i militari avevano prima conquistato il potere con più o meno alti gradienti dell’uso della forza e poi da esso si erano ritirati, riconsegnandolo ai civili, e quindi al parlamento. Naturalmente essi avevano conservato per alcuni aspetti e per alcuni anni un potere di sanzione rispetto alle leggi che ritenevano inappropriate.

Il caso italiano che si sta delineando è completamente diverso. Il governo Monti ha la fiducia del parlamento, ma di un parlamento che è stremato e privo di forze perché manca di legittimazione e non è in grado sostanzialmente di opporsi al potere misto tecnocratico-parlamentare emerso dalla crisi internazionale in cui siamo immersi. Una situazione interessantissima, densa di insegnamenti, perché piena di incognite: economiche, politiche, sociali. Sul piano scientifico, naturalmente.

VII. Una situazione mondiale instabile, la “dittatura romana”, il bisogno della politica e la crudeltà dei professori

Sbaglieremmo se pensassimo che ogni analisi e ogni proposta di soluzione potesse presentarsi oggi con la serenità propria di chi opera in un mondo di stabili certezze. La drammaticità dell’italica vicenda risiede nel fatto che non esiste più nel mondo un baricentro, una leadership a cui far riferimento e a cui render conto, come è tipico delle situazioni imperiali stabili. Oggi gli imperi si sono sgretolati e si è perso il controllo delle province. Esse seguono un loro percorso che non può essere lungimirante e terapeutico come accede con le decisioni assunte da una classe dirigente dal respiro mondiale: imperiale, appunto.

Che il mondo sia entrato in una situazione siffatta ne abbiamo avuto molteplici esempi, recenti e lontani. Uno di quei momenti di crisi del dominio imperiale è stato da me prima evocato, con il riferimento alla situazione portoghese nella metà degli anni settanta del Novecento. Molti si chiesero come gli Usa avessero potuto permettere di lasciar prendere il potere a Lisbona, con un putsch, a un pugno di militari “terzo-mondisti”. Militari avvezzi certo alla lotta nelle colonie che li aveva trasformati da centurioni in ribelli, ma non dotati di particolari doti d’ingegno e financo in odor di sospetto da parte dei sovietici, che mal tolleravano squilibri nelle “sfere d’influenza” (le ferite greche con il colpo di stato improvvido dei comunisti greco-titini nel 1945 ancora sanguinava. L’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 era potuta avvenire senza traumi internazionali per il sacrosanto rispetto delle ricordate “sfere d’influenza”). E l’Urss a quel tempo costituiva l’incarnazione dell’altro impero attivo e operante.

In una mia giovanile opera sull’Europa del Sud, conclusi che ciò era dovuto alla “disattenzione” (lo ammise Kissinger nelle sue memorie e in un fortunatissimo colloquio che potei avere con lui molti anni dopo), che sull’Europa si era resa manifesta da parte del Dipartimento di Stato, in occasione di una sfida che impegnava tutto il sistema di potere nord americano: la guerra del Vietnam. Essa stava volgendo al termine con esiti disastrosi per il mondo democratico e poneva tutto il resto in secondo piano, anche il pericolo di una dittatura di tipo comunista sul fianco ovest dell’Europa del Sud.

L’incertezza durò poco e le destre e i socialisti portoghesi misero fine al misfatto, non senza dolore sociale. Ma neppure il crollo dell’Urss ha potuto far sì che la centralità dell’impero Usa si ricostituisse: questa è oggi, lontani come siamo anni luce dalla Lisbona degli anni settanta novecenteschi, la conclusione a cui dobbiamo giungere.

L’Europa in tutto ciò ha giocato il suo ruolo: ruolo disgregatore degli equilibri su scala mondiale, come si deve riconoscere se si usa il pensiero e non le viscere per ragionare. Non solo ha creato una moneta senza stato che può mettere in pericolo la leadership del dollaro, con conseguenze disastrose per tutto l’Occidente, ma ha creato altresì, antesignano della follia dell’euro, una sorta di Zollverein protezionistico continentale che aspira alla leadership e parla come tale senza disporre né della legittimità democratica né degli armamenti per esercitare qualsivoglia tipo di stabile dominio.

La guerra non è necessaria per garantire la pace e l’egemonia mondiale, ma occorre essere in grado di minacciarla con sagacia e continuità. Ha addirittura, l’Europa, una sorta di ministro degli esteri che non sa cosa sia la politica estera, e non ha esercito. Di più: al suo interno è scossa da conflitti profondissimi, che certo preesistevano alla crisi mondiale e che sono stati resi manifesti con la sua esplosione.

L’egemonia tedesca, sul piano economico esiste, non v’è dubbio, ma non passa giorno che essa venga messa in discussione, negata, sottoposta a critica, sbeffeggiata e financo tradita da coloro che si pensava fossero i migliori alleati. Tutto questo perché si è epidemiologicamente ri-presentato quel male terribile che il grande Helmut Schimdt ha ricordato recentemente: la democrazia cristiana tedesca ha tradito il messaggio dei suoi padri fondatori e ha posto la Germania prima dell’Europa e non l’Europa prima della Germania, sia nella politica economica sia nella politica estera, tradendo la vera missione tedesca, quella di Goethe e di Schiller, scatenando le ire della memoria storica da un lato e del deliro di onnipotenza della classe politica dall’altro. Delirio che fa paura per le conseguenze tremende che può avere (con quel pizzico di miserevole interesse elettorale che, in mancanza di sagacia dirigente, non manca mai). La deflazione europea e mondiale, appunto, e il populismo di destra e di sinistra, ci dicono che non è escluso che l’era delle dittature europee sia chiusa per sempre, come invece molti credevano.

Gli Usa, dal canto loro, non sanno che fare. Obama pare aver abbandonato del tutto il ruolo d’interprete e difensore in ultima e suprema istanza dei destini dell’Occidente, essenziale per la giustificazione storica degli Usa nel legame transatlantico. Certo, con meno sagacia barbarica di un Clinton, che accoglie nel 2001 nel WTO i cinesi con le loro armi di distruzione di massa, per compiacere un pugno di banche d’affari e qualche multinazionale. Multinazionale che oggi sta pentendosi e cercando di ritornare ai patrii lidi per la fine precoce del cosiddetto”miracolo cinese”, soffocato dalla bolla immobiliare e finanziaria che non si sa cosa potrà produrre in un regime comunista a economia diretta come quello cinese.

Obama ha scelto il Pacifico: il patto militare con l’Australia dimostra che questa scelta, lo si è capito finalmente, non può che aprire a una nuova guerra fredda, speriamolo, con la Cina. Ma ciò che conta è che l’Europa non rientra più nei capisaldi della politica estera nord americana. Deve far da sé, anche sul piano militare: questa è la situazione. Una situazione di profonda instabilità e d’incertezza permanente.

Qui appare tutta la miseria dei nostri tempi. Qui si rivela la tragicità di una situazione. Tutto è instabile, tutto rischia di rovinarci addosso. E proprio in questa situazione il Presidente della Repubblica Italiana pensa di sortire da essa con una sorta di imitazione delle dittature romane che abbiamo studiato perché amavamo e amiamo i classici, sulla scorta dell’insegnamento di Santo Mazzarino.

La prassi con cui si è proceduto alla nomina di Mario Monti prima senatore a vita, poi Primo Ministro, ricorda l’essenza del processo di nomina del dictator romano. Al posto del tribuno, qui vi è, sempre in uno stato di eccezione, un Presidente con poteri costituzionali limitati, non eletto dal popolo. Tuttavia, ha compiuto l’atto di diritto di nominare una sorta di dictator romano dimidiato; ossia a metà, che ha potere limitati perché sottoposti alla ratifica del Parlamento, a sua volta umiliato e indebolito per il modo stesso con cui è giunto al potere il nuovo governo. I richiami alla storia di Roma sono evidenti e utili comparativamente.

La figura romana del dictator “costituzionale”, ricordiamolo, è descritta da Machiavelli nei suoi “Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio” come: «l’autorità dittatoria (che) fece bene e non danno alla repubblica romana». Il dittatore era un magistrato che veniva dichiarato dictator in seguito a circostanze gravissime e a un pericolo tangibile minacciante Roma, disponendo liberamente della vita e della morte di qualsiasi cittadino. Era nominato da un console o da un tribuno militare e non prendeva il potere da sé: l’enorme potere di cui disponeva aveva la durata massima di sei mesi e la sua stessa esistenza era prevista dalla costituzione di Roma. La nomina era all’inizio esclusivamente di natura patrizia, perché sia i consoli sia i tribuni militari erano, nei primi anni repubblicani, solo patrizi.

I patrizi dell’Urbe disponevano del dictator oltre che per sistemare problemi di politica estera, anche per regolare i conti aperti con i plebei. Luigi Labruna, nel suo testo di storia costituzionale romana, intitola così il capitolo dedicato alla dittatura: “Adversus plebem dictator”. Sottolinea come la figura del dictator nasca essenzialmente come strumento messo a disposizione dei ceti oligarchici per preservare il loro potere contro le pretese della plebe.

Del resto, dal momento in cui il conflitto tra patrizi e plebei perse significato, la figura del dittatore fu dimenticata, fino a quando con Silla ritornò in auge, nell’ anno 82 avanti Cristo: il nuovo strumento che il potere oligarchico utilizzò per difendersi fu il cosiddetto senatus consultum ultimum. Ma che tempra avevano quei dictator sui generis!

Oggi la situazione è ben diversa. I viaggi all’estero del console Mario Monti mi ricordano le pagine di Machiavelli su Lodovico il Moro che va dai francesi per sconfiggere i veneziani, portandosi così il nemico in casa. Sappiamo come è andata a finire: dopo Machiavelli viene il Guicciardini e allora al generale interesse della Repubblica e dell’impossibile Italia machiavelliana non si pensa neppure più: trionfa il “particulare” fiorentino. Insomma non si può far le cose accontentando tutti, come vuole la forma mentis istituzionale e cautissima del Presidente Napolitano.

Encomiabile ispirazione, ma destinata a scontrarsi, quell’ispirazione nobilissima, con una realtà internazionale diversa: paurosamente lontana da un regime spartitorio egualitario delle sfere d’influenza e insieme da una rappresentanza politico-tecnica mista e dimidiata (perché a ciò si riduce il dictator montiano) veramente non all’altezza. Perché? Perché vi è bisogno, più che mai, di politica, non di sottrazione di continui lembi di legittimazione alla politica, che è ineliminabile. Insomma, era meglio dedicare i nobili sforzi pro-dictator dimidiato, come suggerivano i neo senatori romani che stanno tra plebe e patrizi, ossia l’abile Casini e il fine filosofo Buttiglione, per cercare un accordo tra Berlusconi e Bersani, ponendo loro con rudezza dinanzi la drammaticità dell’italica situazione.

La conseguenza di questo rifiuto della soluzione politica è stata non soltanto l’aumento della sofferenza sociale, ma l’emergere di una crudeltà istituzionale sino a oggi inusitata. Prodotto del potere dimidiato (per fortuna!) dei professori italici, i quali, come quelli europei e di tutto il mondo, vivono nell’iperuranio dell’astrattezza. In primo luogo gli economisti, che troppo spesso sono solo professori e non intellettuali, con conseguenze ancor più umanamente devastanti: concepiscono i soggetti umani come cavie e non come persone. Non si tratta, infatti, di piangere, ma di chiedere scusa, di pentirsi e di avere un attimo di coscienza e non di autostima illimitata di sé. Si tratta di capire che le decisioni politiche – perché tutto è aristotelicamente politico quando si è nella polis – hanno conseguenze sulle persone. Le persone, non bisogna mai dimenticarlo, non solo soffrono, ma si ribellano e dilaniano il loro essere se colui che decide non le ascolta, non le consulta.

Questi dictator dimidiati non fanno che aumentare la sofferenza, che diventa disperazione. È la crudeltà istituzionale che oggi sorge all’orizzonte. Mentre nessuno ricorda che, per far finire la crudeltà, occorre il realismo delle scelte politiche che appaiono impossibili e che sono per questo le sole praticabili e giuste: si nazionalizzino le banche, si esproprino i patrimoni delle Fondazioni Bancarie per trovare i denari per rifondare lo stato imprenditore e si riprenda la via dell’economia mista senza cedere al ricatto che, così facendo, ci sprofonderà nella corruzione. Son stati anni di privatizzazioni e la corruzione non mi pare diminuita mentre lo stato mi pare ormai dilavato dal neo patrimonialismo.

Vogliamo tirar le somme? Insomma, ci si divida su queste questioni e non sulle licenze dei poveri tassisti o sulle sofferenze inflitte a lavoratori anziani che si ritrovano disoccupati a cinquant’anni senza poter più avere né il lavoro né la pensione. La carità senza giustizia è pelosa, ma la giustizia senza carità è crudele.

Ora è il più freddo degli inverni, quando si può piangere di sadica crudeltà allontanandosi sempre più dalla giustizia commutativa.

“O dark dark dark. They all go in the dark,
The vacant interstellar spaces, the vacant into the vacant. The captains, merchant bankers, eminent men of letters
The generous patrons of arts, the statesmen and the rulers,
Distinguished civil servants, chairmen of many committees,
Industrial lords and petty contractor, all go in the dark,

I said to my soul, be still, and let the dark come upon you
Which shall be the darkness of God.”

O buio buio buio. Tutti vanno nel buio,
Nei vuoti spazi interstellari, il vuoto va nel vuoto,
I capitani, gli uomini d’affari, gli emeriti letterati,
I generosi patroni delle arti, gli uomini di stato e i governanti,
Gli esimi funzionari, i presidenti di molti comitati,
I capitani d’industria e i piccoli imprenditori, tutti vanno nel buio

Ho detto alla mia anima: taci, e lascia che scenda su di te l’oscurità
del buio
Che sarà l’oscurità di Dio,”

(T.S,.Eliot, da East Coker, in “Four Quartets”, traduzione di Filippo Donini)

Una risposta a “Col potere ai professori venne l’inverno della nostra civiltà.”

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