Imprese in crisi

Crisi, tre aziende su cinque si indebitano con le banche per pagare le tasse
Oltre 81.900 micro, piccole e medie imprese, il 63 per cento del totale, hanno chiesto finanziamenti per rispettare le scadenze fiscali. Pesa soprattutto l’Imu, che ha obbligato gli imprenditori a contrarre nuovi prestiti per quasi 4 miliardi di euro

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02/24/crisi-3-aziende-su-5-chiedono-prestiti-per-pagare-tasse-pesa-soprattutto-limu/510792/

Tre aziende italiane su cinque sono costrette a chiedere prestiti in banca per pagare le tasse. E’ il risultato di uno studio condotto da Centro studi Unimpresa, l’organizzazione che rappresenta le piccole e medie imprese, che ha sottolineato un pesante inasprimento della pressione fiscale. In cima alla lista delle imposte che pesano di più sugli imprenditori c’è l’Imu, che ha obbligato le imprese a contrarre nuovi prestiti per quasi 4 miliardi di euro. I settori dove le aziende si indebitano di più per far fronte alle tasse sul mattone, secondo lo studio condotto su 130.000 aziende, sono gli operatori turistici, le piccole industrie e i supermercati.

Oltre 81.900 micro, piccole e medie imprese, il 63 per cento del totale, hanno quindi chiesto soldi alle banche per rispettare le scadenze fiscali. Oltre all’Imu, è l’Irap l’altra tassa che mette in difficoltà gli imprenditori, considerando che l’imposta regionale sulle attività produttive si paga anche quando i bilanci sono in perdita, dunque in assenza di utili. Tutto ciò genera un “triplo effetto negativo” sui conti e sulle prospettive di crescita delle aziende, come ha spiegato Paolo Longobardi, presidente di Unimpresa.

“Il primo è l’apertura di linee di credito destinate a coprire le imposizioni fiscali invece di nuovi investimenti, che limita la natura stessa dell’attività di impresa”, ha spiegato il numero uno di Unimpresa. Il secondo problema sorge invece alla chiusura degli esercizi commerciali, quando “il valore degli immobili posti a garanzia dei prestiti fiscali va decurtato in proporzione al valore dell’ipoteca, con una consequenziale riduzione degli attivi di bilancio”. E il terzo guaio è relativo a “eventuali, altri finanziamenti per i quali l’impresa deve affrontare meno garanzie da presentare in banca e un rating più alto che fa inevitabilmente impennare i tassi di interesse“.

Il risultato della ricerca, secondo Longobardi, è la prova che “un sistema tributario troppo pesante si accanisce sulle imprese fino a portarle allo sfinimento, se non al fallimento“. E attivare linee di credito per pagare le tasse significa quindi “dire la fine del sistema economico”. “Di fatto l’impresa si trova morsa in una tenaglia, con fisco e credito che tagliano le gambe e chiudono le porte del futuro”, ha concluso Longobardi, “e alla fine il conto arriva anche per lo Stato: un’impresa che annaspa diventa un contribuente meno generoso e pure il gettito tributario ne risente sia sul fronte dell’imposizione diretta sia su quello dell’imposizione indiretta”.

All’Imu aggiungerei l’assurdità dell’Irap, nonché, variando a seconda dei comuni anche molto, la Tassa sui Rifiuti. Queste sono tasse indipendenti dal reddito. In questo periodo di crisi, con diminuizioni cospicue del fatturato – nei casi più fortunati dal 15% al 25% ma ho sentito molte situazioni con cali drastici dal 50 al 75%, fino alla chiusura – diventano dei costi fissi. Vere e proprie imposizioni sull’attività aperta.

Molte piccole imprese, artigiani, lavoratori autonomi, quest’anno non hanno utili. Nonostante ciò pagano migliaia di euro di tasse. E non possono nemmeno chiudere, indebitate come sono con le banche, impossibilitate a smobilizzare eventuali proprietà immobiliari, nell’attuale mercato depresso, dove vendere, ammesso che si trovi un acquirente, equivale a svendere.

La situazione è veramente drammatica, per moltissime imprese. Il che vuol dire allarme disoccupazione per migliaia di persone, che si troveranno per quanto è possibile a sbarcare il lunario nell’economia sommersa (lavorando a nero). La proposta lungimirante del PD di limitare l’uso del contante a 300 euro, lungi da essere una misura antielusione, diventa paradossalmente un motivo ulteriore per spingere parecchi operatori a saltare il fosso, andando ad operare in regime totalmente nascosto, dato che gli spazi di sopravvivenza barcamenandosi non se ne trovano più.

D’altro canto, operare nella logica del rispetto del pareggio di bilancio e degli assurdi diktat dell’Unione Europea, tesi a conservare a tutti i costi gli squilibri sempre più evidenti dell’errore della moneta unica, non permette di muoversi diversamente: drenare risorse dalle tasse, con nuove manovre e inasprimento della pressione fiscale.

Rinegoziare i trattati europei, partendo da una posizione di forza: o così o ce ne andiamo – è l’unica posizione possibile, dignitosa e corretta stategicamente.

Una risposta a “Imprese in crisi”

  1. Sì … ci vorrebbe la volontà politica. Ma i nostri prossimi governanti più che “rinegoziare” voglio “svendere”. Sperimao solo di poter fare affidamene sul centinaio (forse più) di parlamentari non ricattabili … staremo a vedere …

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