L’arte che non pensa, l’assenza dell’autore, la teoria-prassi De Curtis.

La differenza fra Pollock e Rothko, secondo Vanity Fair.

POLLOCK

Sei riuscita a trascinarlo al Metropolitan. La vacanza a New York è stata un’idea sua e tu lo ricambi così? Be’, dopo dovrai permettergli un po’ di ricreazione in qualche megastore di elettronica. Ma ora, ora è il momento di Jackson Pollock, Autumn Rhythm, dodici metri quadrati di uragano, tutta l’energia e la potenza e la forza tellurica dell’atto pittorico, sprigionate da un cowboy del Wyoming armato di vasetti di vernice. L’impatto non può lasciare indifferenti. Anche allontanandosi di qualche passo dalla tela è impossibile contenerla interamente nello sguardo, ma tu spingilo vicino, lascia che si smarrisca. Voleva il colore, eccolo. Schizzi, colate, getti di colore intrecciati in un ginepraio di linee sovrapposte. La materia densa del colore, incrostata insieme a pezzetti di carta, capelli, piccoli cocci di vetro, tutto ciò che cadeva sulla tela nella furia del gesto. Pollock lavorava stendendo la tela a terra e girandoci attorno, il vaso in una mano, un pennello secco o un pezzo di legno nell’altra. Non fronteggiava il quadro, ma ci entrava con tutto se stesso, vi si immergeva come lo sciamano si immerge nello spirito della terra. Si chiama action painting perché questa pittura fissa il movimento, l’azione stessa dell’artista. Non raffigura nulla, ma coglie l’impossibile, cristallizza in effigie l’evento, il breve e articolato processo del suo accadere. Questo quindi non è un dipinto, ma è il dipingere. Non è la rappresentazione di qualcosa percepito nello spazio, ma l’espressione di qualcosa percepito nel tempo. Il ritratto di un’azione, di un’esperienza – l’arte nel suo prodursi – nonché l’urlo bruciante da cui è scaturita.

È come se un fotografo riuscisse a mostrarci nello stesso scatto, non solo il pugno sferrato sul mento, ma la lite, le provocazioni e tutta la serata di baldoria che l’hanno preceduto. Il quadro sarà pure astratto, ma il furore che ne esce sembra di poterlo toccare. È la prima volta che la presenza fisica dell’autore si fa sentire così concretamente nello spazio dell’opera – siamo alla fine degli anni Quaranta – d’ora in poi sarà difficile prescinderne. La tensione mentale, nervosa, muscolare, ecco il corpo dell’artista che «succede» nel dipinto. Siamo a un passo dall’happening, la strada all’arte performativa ormai è aperta, ma Pollock non è un body artist, è ancora un pittore, un pittore in azione.
Certo, l’eruzione libera dell’inconscio ti costringerebbe a ricordargli l’influenza del surrealismo, forse dovresti dargli un paio di coordinate sulle avanguardie storiche, ma tu ora non gli dire nulla. In fondo, l’intellettualismo nevrotico degli europei c’entra poco.

Qui domina l’energia selvaggia degli indiani d’America, le danze, le preghiere, l’istantaneità pura delle loro pitture con la sabbia. Questa è arte che non pensa, arte nata al galoppo nelle praterie del Far West.

ROTKO

C’è il rischio che in un eccesso di zelo – cosa non farebbe per compiacerti? – abbia letto sulla scheda di introduzione alla sala che Pollock e Rothko appartengono entrambi all’espressionismo astratto. Non curartene, ricordati che le domande che ha in mente sono sempre le stesse – cosa mi significa?, cosa mi rappresenta?, che senso ha? – è a quelle che devi rispondere, anche se oggi fa finta di seguirti col massimo entusiasmo.

L’espressionismo astratto è forse la prima vera corrente artistica americana, ma una lezione su questo stroncherebbe i suoi buoni propositi e poi, basta fargli guardare con un po’ di attenzione la tela di canapa grezza che avete di fronte perché si accorga da solo che il lavoro di Mark Rothko non c’entra niente con l’action painting.

Lì si sentiva il furore selvaggio degli indiani, qui si sente il rarefatto intellettualismo di un ebreo russo cresciuto negli States, lì vi tremava la terra sotto i piedi, qui la terra si è dissolta in una nube di pensieri. In effetti, mentre Pollock fissa il gesto irripetibile del corpo a corpo, un artista contro una tela, Mark Rothko sembra dar vita a una pittura senza pittore: una specie di condizione creaturale del colore che viene prima o viene dopo l’uomo, ma in ogni caso ne prescinde. Se il soggetto di un quadro di Pollock è fondamentalmente l’avventura di chi l’ha compiuto (e quindi la vicenda umana nella sua finitezza), il soggetto di un quadro di Rothko è il venir meno, la sparizione, l’assenza dell’autore medesimo. Aiutalo a osservare la sfocatura di quei rettangoli, i loro margini spersi in una vampa che fa pensare all’incandescenza di una pietra e ha lo stesso potere mesmerico (ok, ipnotico, ipnotico). Cosa c’è in quella specie di bagliore lanuginoso? È l’inizio di un’accensione o di uno spegnimento? Galleggia nel nostro sguardo come il riverbero dell’asfalto nelle ore di canicola. Come sarebbe la pittura se non ci fosse l’uomo? È possibile che un artista passi la vita a immaginarsi l’impossibile? Dagli anni cinquanta Rothko non ha fatto altro. Con la sua pittura mentale, ermetica eppure vibrante fino ai limiti dell’implosione, ha evocato l’idea di un’entità superiore che prende in mano i pennelli per parlarci della nostra sparizione. Questo astrattismo non è una risposta al figurativo, ne è semmai l’appello originario. La tensione sprigionata dal suo baluginare è quasi irresistibile. Niente di più drammatico che concentrarsi sulla propria dissolvenza: ogni volta una tela più cupa, ogni volta una campitura più scura, fino agli ultimi quadri quasi completamente neri. Come sparire perfettamente. La sparizione umana, l’espressione di questa assenza, prima e dopo la storia.

A questo punto digli pure che Mark Rothko, dopo una lunga depressione, si è suicidato nel 1970. Se sghignazza dicendo “ovvio”, mi sa che ti conviene rinunciare. Se con la mano si nasconde gli occhi dicendo «mi bruciano, devo aver fissato troppo», allora hai fatto un ottimo lavoro. Lascia che si asciughi le lacrime e persevera!

:::::::

Dopo diverse discussioni, emergeva con una certa forza la teoria De Curtis, altrimenti detta “anche l’occhio vuole la sua parte” mirabilmente sintetizzata in questo video:

alla quale, i partigiani dell’espressionismo astratto non trovavano niente di meglio del concetto sintetizzato in “non è bello ciò che è bello …” ecc.

Ma un Rothko mi pare sia stato pagato anche cifre superiori ai 70 milioni di dollari.
E’ la legge del mercato. Imprescindibile da ogni logica dell’uomo comune.
Basti pensare del resto alla finanza creativa, alle bolle di vario genere, sui derivati, sugli immobili, sui fondi spazzatura. E’ il mercato!
E se il mercato vuole un Rothko a 70 milioni di euro chi siamo noi per sindacare?

Possiamo solo sperare che il principe Antonio De Curtis, ne abbia per l’artista e i collezionisti, ma anche per i critici.

2 Risposte a “L’arte che non pensa, l’assenza dell’autore, la teoria-prassi De Curtis.”

  1. Non lo so Buzz. Su questa cosa non siamo d’accordo mi sa.

    Isoliamo il discorso “mercato”. Quello vale sia per l’arte figurativa che per l’espressionismo astratto. Un Rembrant o un Goya non è che li paghi di meno.

    Isolato quello a me il discorso della rappresentazione del rapporto uomo tela. Il gesto pittorico visibile nel risultato. Le manifestioni dell’uomo-pittore non mediate dal figurativismo … a me queste cose piacciono. Ci trovo sfide di lettura anche da parte del fruitore dell’opera che personalmente non ritrovo nel figurativismo.

    Poi ci sono eccessi ed eccessi … ma tutte le innovazioni sono state avviate da sperimentatori che ai contemporanei sembravano dei pazzi incomprensibili. Nelle scienze come nell’arte …

    Roba che vale anche per la musica. Il free jazz, la classica moderna, parte dell’elettronica ma anche alcuni filoni del prog sono esperimenti simili. Li fai sentire a uno che ascolta ance buona musica e quello ti dice: Ma che è sta roba. Pure io ammetto che alcune di quelle cose non le capisco proprio.

    Poi se vogliamo entrare nel discorso: intellettualismo vs arte popolare le cose si complicano … è ovvio che per fruire un’opera sperimentale ci vuole un ascoltatore/spettatore/fruitore “evoluto”.

  2. “evoluto” mi sa tanto di sinonimo di “elitario”. Nel senso che se per decifrare un “segno” devo conoscere vita morte e miracoli del segnante, allora io e lui facciamo parte di una cerchia ristretta, un’elite appunto.

    Certo è piacevole, far parte delle ristrette cerchie. Dei club. Delle elite.
    Dona un senso di superiorità sugli “altri” e rinforza la nostra autostima, nonché la nostra presunzione.

    “io capisco ciò che l’artista voleva significare perché comprendo (e condivido) il percorso che lo ha portato in quel punto”. Sottinteso: “tu che non capisci, non sai, ignori, silenziati.”

    Per me questo è intellettualismo della peggior specie.
    E non perché io neghi che chiunque possa sentire l’esigenza di dare macchie di colore su una tela, o di schizzarci o colarci colore, e per questo sentirsi di aver fatto una cosa che in quel momento lo rappresenta. E non nego nemmeno che questa opera possa piacere. Nel senso che possa essere trovata bella, piacevole da guardare, da ascoltare, da annusare, da accarezzare. Insomma che soddisfi i sensi.

    Quello che non accetto è che si pretenda di spiegarlo.

    Accetto l’artista ma non l’artista spiegato, per intenderci.

    Ritengo che o l’opera veicola in sè stessa segno e significato, oppure ciò che si trascina dietro è mera sovrastruttura, e spesso quella sovrastruttura altro non è che metastasi mercantilista.

I commenti sono chiusi.