Ricordando DFW

“Alas, poor Yorick! I knew him, Horatio; a fellow of infinite jest, of most excellent fancy.

(Ahimè, povero Yorick!…Quest’uomo io l’ho conosciuto, Orazio, un giovanotto d’arguzia infinita e d’una fantasia impareggiabile). Amleto – Shakespeare

Tre anni fa esatti, il 12 settembre 2008, si uccideva impiccandosi David Foster Wallace.

Io non mi ricordo bene quando fu, ma in un natale vidi un suo libro, “la scopa del sistema” appena uscito, con buone recensioni, e lo regalai a mia cognata. Questa, dopo qualche tempo, venni a sapere che si era quasi offesa, e che il libro non lo aveva letto. Non so se lo avesse buttato o cosa.

Non perché  io avessi in grande stima le qualità di critico letterario di mia cognata, e nemmeno il contrario ad onor del vero. Semplicemente non conoscevo i suoi gusti e quindi non sapevo se questa sua cattiva impressione avrei potuto condividerla oppure no. Ma dai toni ebbi la sensazione di aver regalato qualcosa come “American Psycho” di Bret Easton Ellis, di cui la critica parlava bene ma che come contenuti poteva risultare shockante per più di qualcuno. Chiesi lumi. Mi rispose: “come posso dirti? è brutto. illegibile. proprio brutto brutto, ecco” .

Ovvio che un giudizio così tranciante può incuriosiree indurti a leggerlo.  Ma anche al contrario, alla lunga, può influenzare.  Per cui un po’ sbrigativamente misi “la scopa del sistema” e il suo autore in uno scomparto della mente in cui metto quello di cui diffidare e che è molto vicino, direi contiguo, a quella che francamente definisco spazzatura. In questo comparto ci sono parecchi autori alla moda. Vincere un premio strega o scrivere per certe case editrici porta direttamente in un posto d’onore al suo interno.

Insomma sono un po’ razzista, in senso letterario, e molto selettivo. Penso che il mio tempo è poco, che di scrittori eccezionali nel passato ce ne siano stati molti di più di quanti io riuscirò a leggere nella mia vita, che prima di intraprendere la conoscenza di qualche contemporaneo devo avere dei motivi. Può essere il consiglio di qualcuno che stimo per i suoi gusti letterari, recensioni trovate in rete, o trattare di un argomento che a prescindere dall’autore, mi interessa.

Quello che mi convinse a togliere DFW dallo scomparto di quelli da evitare fu in un certo qual modo la mia per molti versi insana tendenza ad accettare le sfide. Ogni tanto parlando di libri in rete usciva questo libro “Infinite jest” come opera eccezionalmente complessa, difficile da comprendere. E più ne parlavano in questi termini, con entusiasmo, quasi col tono di chi fa parte di un’elite “quelli che hanno letto infinite jest e ci hanno capito poco e ne sono felici” più cresceva in me la voglia di leggerlo per smontarlo pezzo pezzo.

Insomma sì, ho preso in mano Infinite Jest perché ne parlavano bene, ma per una sorta di narcisismo intellettuale e una buona dose di supponenza snobistica, la mia intenzione era farlo a pezzi.

E invece mi sono innamorato. Del libro, ma anche dell’autore. Della mente di chi aveva scritto quel libro. Della sua profondità nella quale era bello perdersi lasciandosi cullare, trasportato dalle sue divagazioni, sballottato dalle sue subordinate, in quel mare apparentemente infinito e circolare che è la trama complessa di quelle 1100 pagine.

Di seguito ho letto altri suoi libri. E poi ho scoperto che DFW era morto, suicida.  E ci sono rimasto male. Come se avessi perso un’occasione. Come fossi arrivato troppo tardi.

E’ una sensazione stupida, perché la conoscenza con un autore è un processo a senso unico. Tu entri in contatto con lui, ma lui non con te. La sua è una relazione uno a molti casuale. Il suo primo interlocutore è egli stesso e quello che lui pensa siano gli altri che lo leggeranno, un altri che è un magma indistinto da cui emergeranno voci vaghe. Forse. Che un po’ si teme e un po’ si cerca. Che comunque non si conosce.

E quindi da lettore, conoscere un autore,  prima o dopo non fa differenza. Ma il fatto è che nei libri di Wallace, in particolare Infinite Jest, ti rendi conto che Wallace presenta se stesso, i suoi se stessi, nei suoi personaggi. E sono tutti personaggi fuori posto. Don Gately, Hal Incandenza, Joelle Van Dyne sono Wallace.  Sue estroflessioni.  E sono dei disadattati, esseri che avevano grandi potenzialità e che hanno sprecato il loro talento. Ai quali ogni forma di riscatto è negata.

Ti affezioni a loro e vorresti trovare per loro una speranza, mentre percorri i labirinti del libro. E alla fine la speranza non c’è. Ma quasi inconsapevolmente si forma nella tua anima un legame a livello molecolare con questi personaggi e il loro autore personaggio egli stesso. Così che quando ho saputo che Wallace era morto, e che si era suicidato, ho avuto la stessa sensazione di impotenza per l’ineluttabile e ineludibile fine di un genio autoimmune condannato a non poter uscire da se stesso. Prigioniero del proprio talento. Come nel suo libro, per i personaggi che ho amato.

Me ne sono dispiaciuto, come per un amico. Per questo oggi lo ricordo.

……………………………

Di seguito un link:  Wallace su roger federer    Per chi non conosce Wallace e conosce un poco il tennis: un modo per conoscere di più entrambi e capire perché Wallace abbia il potere di dare forma con il linguaggio ai pensieri che sai di avere ma che nella tua testa non prendono forma consapevole. E meno che mai diventano discorsi di senso compiuto.


E poi uno splendido articolo di Tommaso Pincio, scritto prima del suicidio di Wallace, in un certo senso profetico.

WALLACE NON È «WALLACE»
di Tommaso Pincio
David Foster Wallace è un fenomeno che non ha eguali nella letteratura statunitense. Al di là delle innegabili doti di scrittore, ciò che lo rende davvero unico è come il suo nome sia ormai diventato sinonimo pressoché indiscusso di talento. È ormai impossibile leggere una recensione di un suo libro che non contenga preamboli in cui si rammenta al lettore quale mago della prosa sia David Foster Wallace e di cosa egli sia capace di fare con le parole e come sappia affrontare qualunque argomento con assoluta proprietà di linguaggio e virtuosismo. Il fenomeno si è puntualmente verificato anche in occasione di Oblio (Einaudi Stile Libero, traduzione di Giovanna Granato, pp. 410, €15), l’ultima raccolta di otto racconti o «romanzi brevi», stando alla definizione che ne dà l’editore nella quarta di copertina.
Ma c’è un fatto ancor più unico se non strano.
Più un recensore cova l’intenzione di stroncare o avanzare riserve, più sembra avvertire l’irrefrenabile impulso di rendere formale omaggio al talento di questo scrittore. È un fatto che dà da pensare. Perché mai tanto insistere sul talento? È perché proprio con Wallace? Si tratta di una semplice coincidenza o c’è invece qualcosa di più problematico nella sua scrittura?

Ebbene, si potrebbe cominciare notando che i personaggi di Wallace sono a loro volta talenti. Ognuno ha una qualche dote che li rende speciali, che li eleva molto al di sopra della media nei campi più disparati, dal tennis alla trigonometria e a tante altre cose divertenti che sarebbe però meglio smettere di fare.
Unitamente a una straordinaria abilità in un qualche campo specifico, questi personaggi sono poi accomunati da una vivacità affabulatoria. Parlano più complicato e forbito di un libro stampato, usano in tutta tranquillità termini così tecnici e oscuri da non comparire nemmeno nei dizionari enciclopedici e citano con solenne noncuranza pensieri di Kant e Schopenhauer, manco fossero frasi estratte dai dolcetti della fortuna.
Altra particolarità è che, quantunque estremamente dotati e superbi oratori, sul piano dell’esistenza i personaggi di Wallace si rivelano inetti fatti e mangiati, esseri incapaci di vivere nel mondo reale o meglio in quella esigua porzione di mondo reale non ancora fagocitata dalla gigantesca, onnivora sfera della rappresentazione mediatica. In parole povere, sono il ritratto stereotipato, seppure altamente sofisticato, del genio come mentecatto o depresso e non di rado anche del genio come entrambi ovvero depresso e mentecatto. E dal momento che il tono ellittico e amfetaminico con cui questi personaggi si esprimono è lo stesso usato a profusione da Wallace nei suoi saggi è difficile non vedere in essi tanti autoritratti dello scrittore come genio depresso e forse mentecatto, l’immagine riflessa dell’autore che si fa vittima dei propri talenti e in particolare del più luminoso e tortuoso fra questi: il linguaggio.
Manco a farlo apposta in Caro vecchio neon, una delle otto storie di Oblio, troviamo un personaggio di nome David Wallace il quale preferirebbe non essere infastidito da una vocina interiore che mai manca di ricordagli come ci sia «qualcosa di profondamente sbagliato in lui», in uno che deve perdere un sacco di tempo ed energie per mettere a fuoco «cosa fare e cosa dire per impersonare un maschio americano accettabile o anche solo marginalmente normale», un individuo in bilico tra l’argento vivo dell’apparenza e la zona morta della coscienza, incapace o comunque impossibilitato a conciliare il tipo brillante che sembrava dall’esterno con ciò che dall’interno lo ha indotto a suicidarsi in modo «teatrale».
Il fatto che questo «David Wallace» si tolga la vita e che lo faccia proprio per via del suo talento — per via di una strabiliante capacità di attorcigliarsi con estrema eleganza attorno alle parole, un dono che è la prova provata di come nessuna normalità sia realmente perseguibile — può essere preso alla lettera, vale a dire come il suicidio letterario di uno scrittore che non regge al dolore di non poter raccontare una storia «vera». Oppure lo si può interpretare in chiave allegorica, il suicidio messo lì a rappresentare l’inanità di tutte quelle filosofie, e sono tante, nelle quali il limite tra linguaggio e menzogna è oltremodo sfumato.
Pensare che il suicidio di «David Wallace» abbia implicazioni più terrene, che parli del dolore della gente reale e magari di eventuali suicidi altrettanto reali, è pura illusione.
Certo, con la gente comune, «David Wallace» qualcosa la spartisce. Ma se ciò avviene è più che altro per un accidente, perché lo scrittore ci presenta il suo «Wallace» nei panni di un essere umano anziché di un titolo quotato in borsa o una macchia d’unto su una camicia o un qualunque dettaglio inanimato tra le decine e decine che egli classifica in ogni suo racconto. E poco ci manca che «David Wallace» non li vesta davvero, i panni del dettaglio inanimato.
A guardarlo bene in faccia, infatti, questo «David Wallace» non è soltanto un essere umano altamente improbabile. È qualcosa di più: semplicemente non è umano. E non per quello che pensa e che sente, bensì per come pensa e come sente. Se davvero fossero vivi e umani, «Wallace» e gli altri personaggi di Wallace dovrebbero avere un processore di ultima generazione al posto del cervello. La loro umoralità è volatile come quella dei mercati e il dolore che provano implode immancabilmente alla maniera indecifrabile di una bolla speculativa. In questo, non lo si può negare, sono un prodotto del proprio del tempo. Molto new economy, per così dire. Quanto al resto, a un’umanità vagamente credibile, è meglio lasciar perdere.
Le menti dei personaggi di Wallace incarnano la fallimentare apoteosi di un linguaggio che si muove a velocità vertiginose e impossibili da sostenere per un normale cervello umano, fosse anche quello estremamente dotato di uno scrittore di talento. Sostenere che i lunghi, tiratissimi monologhi interiori in cui Wallace eccelle siano flussi di coscienza è un’aberrazione. Nessuno essere umano nel chiuso della propria scatola cranica è in grado di pensare a quel modo. Questi sono piuttosto riflussi, diagrammi di una coscienza che si ripiega totalmente sul linguaggio, linee guida sulle quali impostare un ipotetico software per la simulazione di collegamenti neuronali geneticamente modificati.
Per ciò che rappresentano e per come si manifestano, tanto il talento di David Foster Wallace quanto quello dei suoi «David Wallace» esprimono disagio, ma soprattutto mettono a disagio. L’ossessione con cui i recensori si predispongono a criticarlo e analizzarlo ha un po’ il sapore dell’esorcismo rituale, quasi ce lo si dovrebbe scrollare di dosso il più presto possibile. Ma perché? Cosa c’è di tanto disturbante nel talento?
Wallace è un digressivo, uno che divaga, quindi non è escluso che una delle ragioni sia il timore che un vero «cosa» manchi all’appello. Se così fosse il disagio nasconderebbe il seguente dubbio: tanto talento per nulla? E il vuoto, si sa, non è mai piacevole da accettare. Ancor meno lo è quando ti viene propinato in forma di pieno ridondante. L’autore non fa molto per fugare il dubbio. Anzi, spesso si crogiola proprio nell’esatto contrario. In un modo che è troppo esplicito per non essere premeditato, Wallace predica bene e razzola male. Per esempio, nei suoi saggi ci spiega che l’ironia è il sintomo della disperante stasi in cui versa la cultura americana ma quando «narra» — un narrare tra molte virgolette — non si fa scrupolo di attingervi a piene mani.
A nessuno piace passare per scemo, tantomeno ai critici letterari americani, e siccome è oggettivamente arduo stabilire una volta per tutte se David Foster Wallace «ci fa o ci è» nonché se sia davvero rivelante stabilirlo, i critici mettono le mani avanti. La liquidazione preventiva del talento vorrebbe suonare un po’ come un avvertimento: «Abbiamo capito che a parole sei bravo ma non sperare di incantarci in eterno. Se hai qualcosa da dire, diccela». La verità è che sotto sotto i critici hanno paura di essere incantati se non addirittura imbrogliati, e questo non lo mandano giù.
Purtroppo per loro lo scrittore si è messo in una botte di ferro. Il racconto che ha per protagonista «David Wallace» comincia infatti così: «La mia vita è stata tutta un imbroglio. Non sto esagerando. Moltissimo di tutto ciò che fatto è stato di cercare di creare tutto il tempo una certa impressione di me nella gente. Quasi sempre per piacere agli altri o essere ammirato».
Cosa si può volere di più dalla letteratura? Se un giorno qualcuno dimostrasse che sotto il talento c’è davvero il nulla, Wallace potrà sempre dire che lo aveva già scritto lui a chiare lettere: sono soltanto un imbroglio. Diversamente, si riuscisse a provare che è effettivamente quel genio di cui tutti favoleggiano, simili ammissioni farebbero all’istante ritorno nei ranghi della finzione. Comunque facciano i critici, sono condannati a sbagliare e perciò relegano in un preambolo l’incomodo del talento, poi si vedrà. Del resto queste sono le regole del gioco postmoderno. C’è della sublime ironia in tutto ciò. È così smaccatamente wallaciano.
Esiste tuttavia un modo più obliquo di affrontare il problema. Spesso si sottolinea come i prodromi della prosa digressiva e ironica di Wallace siano da ricercare in un capolavoro della letteratura inglese del Settecento, Vita e opinioni di Tristam Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne. I legami sono in effetti tanti, evidenti, innegabili. Sterne era scrittore maniacale e nevrotico, animato da un’immaginazione a dir poco ondivaga ed errante. Tra le altre cose nutriva una certa propensione a decorare la sua prosa con effetti visivi speciali: pagine nere, scarabocchi, composizioni grafiche e tipografiche — pratiche bene note all’autore di Infinite Jest. Altro dato rivelante, Tristam Shandy è stata la lettura preferita di molti filosofi, primo fra tutti Wittgenstein, al quale Wallace fa ostinatamente riferimento.
Quantunque inacidito dalla malinconia e incline alle iperboli, Tristam Shandy è però un conversatore amabile, uno che nel parlare non dimentica mai le buone maniere. Non per nulla è un gentiluomo. I personaggi di Wallace, specie quelli degli ultimi due libri, sono invece esseri di gran lunga più abbietti, «uomini schifosi» volendo usare una definizione dell’autore. A ben guardare il loro modo di esprimersi ricorda più da vicino il Dostoevskij di Memorie dal sottosuolo, e qui c’è un fatto da non sottovalutare.
Quando era alle prese con la stesura di quella fulminante discesa negli inferi, Dostoevskij era alquanto provato. A quarant’anni da poco suonati, aveva patito il carcere e scampato una condanna a morte, era sommerso dai debiti e stava perdendo la prima moglie affetta da un male incurabile. In quel periodo scrive una lettera al fratello dove racconta in quale stato di disperazione versasse. Dopo essersi soffermato — non molto per la verità — sul dolore per la moglie, con un brusco cambiamento di tono, passa a precisare che tutte le mattina si mette al lavoro, per dedicarsi anima e corpo al «sottosuolo» definendolo una «porcheria» salvo ripensarci dopo manco un paio di righe. Quella lettera è un strabiliante concentrato di ciniche contraddizioni e dimostra quanta poca differenza ci fosse tra ciò che egli era e ciò che stava scrivendo.
Il ruolo della finzione è davvero minimo nelle Memorie delle sottosuolo, non c’è alcun imbroglio. Se qualcuno dei critici così spaventati dal talento di Wallace avesse incontrato quell’uomo girare per le strade di Pietroburgo con lo sguardo rabbioso e allucinato dalla fame, il probabile commento sarebbe stato: «È ormai bello che andato. Ci siamo giocati Dostoevskij». Ebbene, l’uomo sull’orlo del baratro, colui che si riteneva ormai nella «più fonda vecchiaia» e perciò «indecoroso, volgare, immorale», doveva ancora scrivere Delitto e castigo, L’idiota, I demoni e I fratelli Karamazov. Non male per uno che si rende conto che «la situazione è senza via d’uscita».
Ora, ciò che è interessante notare non è che David Foster Wallace non è Fedor Michajlovič Dostoevskij — chi mai potrebbe esserlo in questi tempi? — quanto che «Wallace» non è Wallace. Il sottosuolo da cui parlano i personaggi dei «romanzi brevi» di Oblio, con buona pace di Freud, non è l’inconscio; sono gli scantinati del testo ovvero le divagazioni, gli incisi, i simboli astrusi, i termini tecnici ignoti ai più, le note a piè di pagina. I vari «Wallace» parlano di una disperazione e di un dolore ostentati, sono l’ostentazione della disperazione e del dolore di Wallace, il quale, però, è sì una persona nevrotica e piena di idiosincrasie ma anche amabile, spiritosa ed educata quanto basta. Insomma un gentiluomo dei nostri tempi o meglio di un momento specifico e ben delimitato dei nostri tempi.
Si giunge così al motivo per cui vale la pena di leggere i libri di questo scrittore, talento o non talento. Wallace è un uomo che non può fare a meno di guardare il mondo con gli occhi di un decennio fa. Il che non lo rende meno attuale, tutt’altro. Gli anni Novanta rappresentano il paradiso perduto dell’America di oggi, di quell’America che non si capacita di come Bush abbia vinto ancora una volta, di un’America democratica, politicamente corretta ed esteticamente sofisticata ma comunque perdente.
Tutto era così chic in quel decennio che Stiglitz avrebbe forse fatto meglio a definire «struggente» anziché ruggente. Perfino l’eroina era chic, e ci sono voluti un bel po’ di morti per overdose e un famoso discorso agli stilisti di moda tenuto da un Clinton ormai in procinto di lasciare la Casa Bianca — «Non avete bisogno di rendere glamour la tossicodipendenza per vendere i vostri vestiti» — perché si cominciasse a capire che la festa stava per finire. Poi è arrivato l’11 settembre, il giorno dopo il quale mondo non avrebbe dovuto mai più essere lo stesso.
Sarà, ma nel 1991 un presidente di nome Bush guidava gli Stati Uniti in guerra con un paese chiamato Iraq. Più o meno il punto in cui ci troviamo ancora oggi. Purtroppo la verità non è che Kerry sia uscito sconfitto dalle ultime elezioni, ma che Nixon sia risultato l’inatteso vincitore di quelle del 1968. Da quel momento è infatti iniziata una lenta e metodica opera di erosione di tutto ciò che la controcultura sembrava aver definitivamente abbattuto negli anni Sessanta. La voce di Wallace — seppur nel suo modo cervellotico e un po’ compiaciuto, così letterariamente chic e corretta — ci ricorda che nel nostro modo di opporci al riflusso, di essere dissociati e addirittura di provare dolore c’è qualcosa che non va, così come c’era qualcosa che non andava nell’illusoria parentesi dell’era Clinton. Non è poco fintantoché il sottosuolo non tornerà a farsi sentire come si deve.

7 Risposte a “Ricordando DFW”

  1. Grazie Buzz.
    Sapevo di Wallace poco più che fosse esistito. Qualche articolo, su di lui.
    Ho letto adesso tutto quanto c’è nel tuo post: ho brivi d’incanto, ma anche di consapevolezza.
    Ci facciamo? No, ci siamo!

    1. Brividi, non brivi (non so come correggere i commenti).
      E sto prendendo im maggiore considerazione il tennis…

      1. Vabbé, commento soltanto io ‘sto topic.
        Ma questa di Wallace è stata per me una vera scoperta.
        E non guardo il dito, non accorgendomi della luna cui è puntato.
        Ho infatti l’impressione che l’esempio del tennis varrebbe per mille altri temi.
        E’ uno stile, e che stile!

  2. Con infinite jest mi è accaduta una cosa particolare, abbastanza inusuale: mi sono ritrovato ad amare il libro non tanto per il respiro della struttura narrativa quanto per i forti momenti di empatia con i suoi personaggi. E inoltre, ho trovato fantastica la capacità di usare il linguaggio per descrivere, minuziosamente, dettagliatamente. Che sia una stanza o uno stato d’animo, un dialogo a più voci e i pensieri e gli atti intercorrenti. Alcune pagine mi facevano venire in mente la struttura musicale della Fuga, in cui c’è un soggetto, uno o più controsoggetti, la risposta, gli episodi…
    Ora, quanta padronanza del mezzo tecnico, il linguaggio, devi avere per sviluppare pagine così piene di digressioni e subordinate, eppure fluide. Il fissare particolari che sappiamo esistere, nella vita reale, ma che pure passano sullo sfondo, quasi inavvertiti a livello cosciente ma che poi sono ciò che danno un tono, un colore, un sapore alla realtà.
    Sai che mi viene in mente?
    Un buon vino rosso. Fra persone normali, se lo apprezzi ti limiti a dire che è buono, che è forte, che è asciutto… puoi dire che è ha un aroma intenso, ricco, puoi apprezzarne il profumo… poi leggi le descrizioni e ci trovi “bouquet di fiori di calendula con retrogusto di mora e ibisco e un leggero sentore di foglia verde di rosa…” e tu dici boh ma pensi minchiamadadocazzoletiranoforistecose (cioè io, che penso romano, tu penserai in milanese :-D)
    Va beh… io apprezzo questo tecnicismo, questa padronanza del mezzo, questa capacità di sezionare la complessità della realtà, come una TAC dell’esistente. E’ un caso in cui la forma diventa sostanza, secondo me. Per questo in fondo dissento da quella critica di Tommaso Pincio che ho riportato, che pure trovo lucidissima e profonda. Diventa sostanza perché questa fotografia scansionata istante per istante di frammenti di vite è quanto di più si avvicina a rendere possibile una sostanziale piena identificazione fra chi legge e ciò di cui si scrive.

  3. Ci sono degli incontri forieri di rimpianti.
    Se avessi letto un Infinite Jest nel 1984 avrei scelto studi diversi, avrei fatto lo scrittore e basta, magari senza vendere una copia, e chissenefrega, ecc, ecc.
    Ma I.J, e tutti i suoi libri, sono arrivati dopo. E devo dire che a 18 anni non è che fossi uno a digiuno di letture. Leggevo molto più della media, scrivevo, sperimentavo. Conoscevo molti classici, molti contemporanei, e così via.
    E allora?
    Cos’ha di diverso Wallace rispetto agli altri?
    Wallace è, direbbero gli inglesi definitively, un contemporaneo. E’ IL contemporaneo. Io adoro molti scrittori, tra cui contemporanei come Mc Carthy, e molti di loro scrivono di contemporaneità, ma nessuno scrive come se fosse accanto alla tua retina, a prendere appunti. Sono capaci, i miei miti letterari, di farti chiudere la copertina con un senso di appagamento totale, ma le loro storie, saggi, romanzi, sono fuori dalla tua stanza. Magari ti spingono ad uscire da quella stanza, o a chiudere bene la chiave ( come mc carthy…), ma non sono lì con te, insieme a te.
    E invece provate a leggere i racconti de la ragazza dai capelli strani, oppure il capitolo in cui si descrive il padre Incandenza in I.J. e poi la rissa, i tentativi di suicidio, gli allenamenti, il ragazzino che si tuffa nel primo racconto di brevi interviste con uomini schifosi…alzi la mano chi non si riconosce in ognuno di quei quadri, persino in quelli che, grazie al cielo ( mi riferisco ai suicidi, alle dipendenze da droga, ecc), sono oggettivamente lontani dalla nostra storia personale.
    Lui li ha scritti come un reporter, con linguaggio ineguagliabile ( mi diverto a scrivere qualche riga di un certo autore, una sorta di esercizio; beh, ci riesco con Saramago, Mc Carthy, …escono copie, ovvio, ma vedi che sono stili in cui potresti calarti. Con Wallace non ce la fai, è impossibile. Ogni sua frase ha un codice a barre, è unica e inimitabile, non copiabile. Anche Pynchon è così, ma Wallace è più artista nella scelta dei vocaboli), e, in aggiunta, unico fra gli unici, ha saputo essere comico e tragico come nessun altro ( ridi a crepapelle in certe pagine, e rimani angosciato in altre).
    E’ fantastico sapere che scrittori come lui ( o come Mc Carthy, anche), non abbiano ricevuto il nobel. Ti fanno sentire con la coscienza a posto. sai che anche se hai delle lacune letterarie gigantesche, c’è qualcuno che sta peggio di te. I così detti giurati/critici/esperti.

  4. Ho letto qualcosa di Pynchon infine. L’arcobaleno della gravità. Veramente non l’ho ancora finito. Trovo che sia perfetto per la lettura di qualche pagina al giorno. Tanto è godibilissima lo stesso, anche se la trama generale te la sei scordata, se mai ci hai capito qualcosa. 😀
    Mi sta ricordando un po’ Murakami, con “l’uccello che girava le viti del mondo”. Un gioco di scatole cinesi.
    Per ora però non mi sono fatto un’idea. Sono solo rimasto strabiliato dalla puntigliosità con cui tratta ogni argomento, e ne tocca moltissimi, usando una proprietà di linguaggio tecnico da manuale.
    Ad esempio, descrivendo un armadio, la maggior parte degli scrittori che conosco si limiterebbe a forma,colore, altri minimi particolari importanti nella relazione con un personaggio… lui prende a descriverti: anta, pomello, lesena, capitello, rosone, cornice, dentello, fascia radicata, cappello…
    (ovviamente questi nomi li ho presi da http://artedelrestauro.it/blog/armadio-rinascimentale-glossario-storia-del-mobile.html ).
    E così per tutto.
    Ma questa attitudine sezionatoria Pynchon la riserva agli oggetti, Wallace la estende alle interazioni. In questo è unico. Perché per usare un glossario “basta” saperlo cercare e avere una grande capacità di riportare il tutto in un discorso tale che non diventi di una pesantezza mortale; ma per delle interazioni complesse devi crearlo ex novo ogni volta, in modo credibile, e poi costruire pagine leggibili.

    Ma la mia idea di Pynchon per ora è troppo larvale. Ci tornerò sopra fra un paio di libri almeno. 🙂

  5. sono vicina al gesto del suicidio
    lontana ancora dal terminare infinite jest
    sono vicina alla particolare ricchezza del libro
    lontana ancora dal dare un giudizio definitivo

    sono vicina, come sempre, a buzz e ad altre persone che continuano a darmi tanto
    anche se lontane

I commenti sono chiusi.