Un po’ di storia sul meridione d’italia

L’articolo precedente di Claudio Borghi Aquilini trascura, necessariamente perché non è l’argomento oggetto della discussione e perché troppo lungo da affrontare sia pure in un inciso, come nasce la questione meridionale italiana.

Voglio affrontare questo argomento, perché insieme è un monito e perché è una questione di giustizia, di verità storica.

Come risultò dalla Esposizione Internazionale di Parigi del 1856, le Due Sicilie erano lo Stato più industrializzato d’Italia ed il terzo in Europa, dopo Inghilterra e Francia. Dal censimento del 1861 si deduce che, al momento dell’Unità, le Due Sicilie impiegavano nell’industria ad una forza-lavoro pari al 51% di quella complessiva italiana. I settori principali erano: cantieristica navale, industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo, vetraria, alimentare. Nel periodo borbonico (1734-1860) la popolazione si era triplicata ad indicare l’aumentato benessere, relativamente ai livelli di quei tempi. Nel 1860 vi erano poco più di nove milioni d’abitanti e la parte attiva era circa il 48%. Le Due Sicilie erano lo Stato italiano preunitario più esteso: comprendeva tutto il Sud dell’Italia, la Sicilia, l’Abruzzo, il Molise e la parte meridionale dell’attuale Lazio. La sua storia era cominciata nel 1130 con l’unificazione compiuta da Ruggero II d’Altavilla. Il regno durò quindi 730 anni, durante i quali i suoi confini rimasero in pratica invariati. http://www.ancinale.altervista.org/index_file/StoriaBrigantaggiolegittimadifesadelSud.htm

Il mezzogiorno d’italia preunificazione era una realtà economica vivace e competitiva.

L’articolo di Borghi fotografa questa situazione:

Per rendere l’idea: immaginate che la forza economica e industriale del Nord Italia sia “10″ e che lo stesso valore debba essere dato ad un’ipotetica valuta del Nord, mentre il valore per il Sud è “2″. La valuta “Lira” sarebbe scambiata a una media delle due aree, diciamo “6″. Il risultato è che il Nord ottiene una valuta più debole rispetto alla sua forza, mentre il Sud ne ha una più forte. Le industrie del nord diventano così molto competitive ed esportano con successo sul mercato mondiale ed anche sul mercato interno, mentre nel giro di poco tempo le fabbriche del Sud chiudono e rimangono in vita solo i settori al riparo dalla competizione (turismo, cibo di qualità), non abbastanza per essere autosufficienti. Ben presto è risultato evidente che la situazione del Sud era insostenibile e che i programmi per “rilanciare” l’economia del sud drenavano soldi dal Nord, portandosi via molto del suo surplus commerciale.

Ma questo è vero perche nel 1860 il Regno Sabaudo è riuscito a prosciugare l’economia del sud per finanziare i prodromi dello sviluppo del nord. Che è più o meno la cosa che la Germania sta facendo oggi con il sud europa.

L’indice di industrializzazione, come si può vedere in questo studio di Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli pubblicato sui Quaderni di Storia Economica di Bankitalia, cala progressivamente dopo l’unificazione:

Nel 1871 il tasso di industrializzazione del Piemonte era del l’1.13%, quello della Lombardia 1.37%, quello della Liguria 1.48%. Da evidenziare come, a questo punto, fossero già trascorsi dieci anni di smantellamento dell’apparato industriale dell’ex Regno delle Due Sicilie, con il ridimensionamento di importanti stabilimenti come le officine metallurgiche di Pietrarsa, a Portici (Napoli) (oltre 1000 addetti prima dell’unificazione ridotti a 100 nel 1875), nonché quelle di Mongiana in Calabria (950 addetti nel 1850 ridotti a poche decine di guardiani nel 1873): ebbene, nonostante l’opera devastatrice dei presunti liberatori scesi dal Settentrione, l’indice di industrializzazione della Campania era ancora dello 1.01%, con Napoli, nel dato provinciale, all’1.44% e quindi più di Torino che era solo all’1.41%.

L’indice di industrializzazione della Sicilia era allo 0.98%, quindi agli stessi livelli del Veneto che era al 0.99%, la Puglia era allo 0.78% con la provincia di Foggia allo 0.82%: molto più di province lombarde come Sondrio, allo 0.56%, e vicinissima ai livelli di industrializzazione dell’Emilia, lo 0.85%. La Calabria era allo 0.69%, con la provincia di Catanzaro allo 0.78% e perciò allo stesso livello di Reggio Emilia e più di Piacenza, che era allo 0.76%, ma anche di Ferrara allo 0.74%.

Il tasso di industrializzazione della Basilicata era allo 0.67%, un indice che per quanto a prima vista basso era comunque più alto di aree liguri come Porto Maurizio che era allo 0.61%. L’Abruzzo era invece allo 0.58%, con L’Aquila a 0.63%.

Detto questo, appare drammatico come, quarant’anni dopo, nel 1911, l’indice di industrializzazione del Piemonte fosse salito all’1.30% mentre quello della Campania era sceso a 0.93%, con Napoli all’1.32%. La Lombardia era arrivata all’1.67%, la Liguria all’1.62%, mentre la Sicilia era crollata allo 0.65%, la Puglia allo 0.62%, la Calabria allo 0.58%, la Basilicata allo 0.51%.

Che prezzo pagò il sud, per questa unificazione, sotto il profilo dello sviluppo lo vediamo ancora oggi. Quello che pagò negli anni immediatamente successivi non è storia molto nota. I vincitori come sempre sono bravi ad occultare le prove dei loro misfatti, ma vale la pena di ricordarla.

6.564 arresti, 5.212 condanne a morte, 54 paesi rasi al suolo, di cui uno dei più efferati fu il massacro di Pontelandolfo e Casalduini, più di un milione di morti. Il regno delle due Sicilie nel 1859 aveva nove milioni di abitanti. Fu sterminata l’11% della popolazione. E’ difficile non pensare ad un genocidio. Alcuni storici la considerano una vera pulizia etnica, la prima perpetrata in occidente delle popolazioni meridionali, regolata dalla legge Pica emessa dal governo Minghetti nel 1863, che permetteva di fucilare seduta stante chiunque fosse trovato in possesso di un’arma.

Che ci si trovasse di fronte ad una repressione capillare, sistematica, paese per paese lo si deduce dalle forze in campo: nel 1865, anno del massimo sforzo della resistenza meridionale, la guardia nazionale aveva a disposizione più di 300.000 uomini. Riferiva “la civiltà cattolica-vol 11°” che, sommando tutti i morti, il loro numero sarebbe senza fallo, assai maggiore di quello dei voti del plebiscito (strappati con la punta del pugnale e la minaccia del moschetto.”) E’ bene ricordare che i SI al plebiscito furono 1.302.064. i NO 10.312 ; senza essere di parte non si può dar torto al redattore della rivista.

Si deve pertanto fare riferimento ad almeno un milione trecentomila vittime, la gran parte fra la popolazione non belligerante. L’azione di repressione piemontese era così scandalosa che persino Massimo D’Azeglio fu costretto a dichiarare pubblicamente: “ so che di qua del Tronto non ci vogliono 60 battaglioni per tenere il regno, di là si…, si deve quindi o cambiar principi o cambiar atti. Agli italiani che non vogliono riunirsi a noi non abbiamo diritto di dare archibugiate.” Invece continuarono archibugiate e cannonate.

Chi erano i briganti, cosa ha rappresentato il brigantaggio? Giustino Fortunato, uno dei più acuti studiosi della questione meridionale, ha sostenuto che il brigantaggio non era stato un tentativo di restaurazione borbonica e di autonomismo, bensì un movimento spontaneo storicamente rinnovatosi ad ogni cambiamento politico, frutto di secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi.Le prime forme di una diffusa reazione si hanno dopo il plebiscito del 21 ottobre 1860, per mezzo del quale i piemontesi cercarono di legittimare la loro presenza. L’inizio della repressione dell’esercito unitario fece affluire nelle bande migliaia di uomini: soldati della disciolta armata reale delle 2 Sicilie, coscritti che si rifiutavano di arruolarsi, prigionieri di guerra liberati, pastori, braccianti, intellettuali.

Tutti ritenevano di combattere contro una visione del mondo estranea alle proprie tradizioni civili e religiose. Passarono alla storia come briganti e malfattori.

Alla caduta di Francesco II dopo la battaglia del Volturno, iniziarono le deportazioni al nord. Gli accordi per la resa prevedevano che i soldati e gli ufficiali del disciolto esercito regio potevano essere integrati nell’esercito unitario oppure lasciati liberi. Pochissimi accettarono di continuare la ferma, qualche ufficiale cominciò ad organizzare sacche di resistenza a Napoli. Il generale Cialdini non rispettando gli accordi, stivò almeno 5000 prigionieri in due piroscafi con destinazione Genova. Fu il primo di diversi viaggi per il trasferimento di prigionieri al nord.Il forte di S.Benigno fu trasformato in un campo di concentramento di transito, mentre a S.Maurizio

Canavese, Alessandria, Parma, Modena, Bologna, Savona (forte del Priamar), vi furono strutture di detenzione stabili, se la parola lager ci sembra troppo forte. Nel Priamar fu relegato Giuseppe Santomartino uff. borbonico fatto prigioniero alla caduta della fortezza di Civitella del Tronto. Fu condannato a morte, pena poi commutata a 24 anni in seguito alle pressioni francesi. Dopo pochi giorni di detenzione fu trovato morto, probabilmente fu “suicidato”…, ma non fu mai aperta un’inchiesta. Fu il primo di una lunga serie di “suicidi” della nostra storia.

Nessuno di questi luoghi sfiorò però la fama sinistra del forte di Fenestrelle. Più che un forte era un insieme di forti collegati da una ciclopica cortina bastionata che seguiva le asperità del luogo, a cui si sommava un clima veramente rigido reso ancor più insopportabile dai guardiani che avevano pensato bene di portar via porte e vetri alle finestre. I prigionieri erano coperti di cenci, senza pagliericci, senza coperte, senza luce e con mezza razione di pane e brodaglia. I più, costretti a muoversi con ceppi, catene, ed una palla al piede di 16 kg . Spesso le persone segregate non sapevano di che cosa fossero accusate e venivano loro sequestrati tutti i beni,( alcuni malpensanti dissero che la vera motivazione fosse questa) molti non erano registrati. Pochissimi riuscirono a sopravvivere. La sopravvivenza media dei prigionieri non superava i tre mesi ed i corpi dei morti venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca dietro alla cappella.

Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi affinchè non restassero tracce dei misfatti compiuti. Fu un vero campo di sterminio.

“ Tutti i criminali meridionali dovrebbero essere deportati in un luogo disabitato e lontano migliaia di km dal bel paese, in Patagonia per esempio.” Non si tratta dell’ultima provocazione leghista bensì delle parole di un presidente del consiglio italiano, Luigi Menabrea. E’ il 1868 ed il brigantaggio è ben lungi dall’essere risolto, così il governo italiano decise di cambiare strategia: deportare i briganti in luoghi desertici e lontani in modo da recidere i legami con il territorio.

Un progetto perseguito per oltre 10 anni che fallì solo per non aver trovato la disponibilità di alcun paese straniero a cedere le aree. E’ stata la Gazzetta del mezzogiorno di Bari a rendere pubblico il piano di deportazione rintracciandone il progetto nell’archivio storico della Farnesina. Furono contattati gli Inglesi per un’area sul mar Rosso, gli Argentini per una terra in “quelle bagnate dal Rio Negro” cioè la Patagonia. Fu la volta del console generale a Tunisi a cui fu chiesto di studiare la possibilità di insediare una colonia penale italiana. Di fronte all’ennesimo no, Menabrea si rivolse di nuovo agli Inglesi per l’isola di Socotra (tra la Somalia e lo Yemen) o quantomeno fare da tramite con l’Olanda per avere una disponibilità nel Borneo.

Il sud d’Italia uscì da più di 10 anni di guerra al brigantaggio veramente stremato. L’agricoltura azzerata, l’industria, specialmente quella metallurgica, molto fiorente durante il regno delle due Sicilie, chiusa o lasciata decadere. L’industria tessile più moderna trasferita al nord. La popolazione rurale piombò in una miseria assurda. Intravide l’unica salvezza nell’emigrazione, non rimaneva altro che espatriare. Si calcola che dal 1870 al 1900 emigrarono non meno di 5 milioni di persone, la maggior parte in Sud e Nord America. Fu una delle più grandi ondate migratorie di tutti i tempi.

I Padri della Patria potevano far meglio? Forse si. Gaetano Salvemini già nei primi anni del 900 affermava: “ bisognava creare un’amministrazione civile, un esercito, una flotta, un sistema tributario e scolastico per popoli vissuti per 12 secoli sotto governi separati con consuetudini eterogenee “.

Salvemini pensava ad uno stato confederale ma non fu il solo. Già Pio IX auspicava per l’Italia una lega federativa che avrebbe incluso stato pontificio, regno di Sardegna, granducato di Toscana, regno delle due Sicilie, con la presidenza di Pio IX stesso e ne fissò i termini in una “bozza del trattato per la lega italiana.” Sicuramente il Papa voleva garantire il suo potere temporale che sentiva in pericolo, ma nello stesso tempo dimostrò una lungimiranza politica notevole. Il granducato di Toscana ed il regno delle due Sicilie erano pronti a costituire la federazione però non venne mai ratificata per la strenua opposizione del Piemonte, spalleggiato dai massoni italiani ed inglesi.

Perché Cavour si oppose così aspramente alla nascita di uno stato confederale e portò avanti con tutti i mezzi una politica di annessione? Una risposta si potrebbe trovare in alcune cifre di quegli anni elaborate dal Banco di Napoli.( una delle tre banche dello stato unitario.)

Bilancia commerciale degli stati italiani al momento dell’unità d’Italia:

Regno delle 2 Sicilie           +41 Milioni

Lombardia                           +42 M

Umbria, Marche                   +11 M

Regno di Sardegna e P         -85 M

Riserva aurea equivalente di alcuni stati al momento dell’unità d’Italia:

Regno delle 2 Sicilie:         +445 M

Lombardia                           +8,1 M

Granducato di Toscana       +85 M

Regno di Sardegna e P       + 27 M

Risulta abbastanza evidente che il Piemonte con l’operazione unità d’Italia ripianò il suo enorme debito pubblico, aggravato in massima parte dalla 2° guerra di indipendenza, ed il suo deficit commerciale. Alla luce di questi elementi si spiega concretamente la grossa preoccupazione che Cavour nutriva nei confronti di Garibaldi che, una volta liberato tutto il meridione dai Borboni, avesse avuto la tentazione di creare una repubblica del Sud invece di rispettare i patti e facilitarne l’annessione al nascente stato italiano.  (da http://www.truciolisavonesi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1645:riflessioni-intorno-alla-repressione-del-brigantaggio&catid=63:altri&Itemid=57)

 

Il monito che viene dalla nostra Storia e che purtroppo non riusciamo a vedere è che si sta ripetendo lo stesso meccanismo, su scala europea, che si verificò in Italia 150 anni fa.

Per ora è solo guerra economica. Quando inizieranno le rivolte, perché la gente non ci starà, a vedersi portare via tutto, così come i cafoni meridionali non vollero starci ad essere subissati di tasse e si fecero briganti, vedremo attuarsi il passo successivo.

Ancora paghiamo, oggi, nonostante i tentativi di riequilibrio fiscale (cassa per il mezzogiorno) la devastazione economica e quindi culturale e politica del sud. La paghiamo in termini di sentimenti antistato, fortemente radicati al punto da aver creato le subculture mafiose. La paghiamo socialmente con la percezione radicata nell’individuo dello Stato come cosa altra, nemica. Non come cosa comune, come res pubblica. Per cui la logica che i soldi pubblici, le cose pubbliche non sono sentite come di tutti, cioè anche mie, ma come di nessuno, per cui chi può ne fa quel che vuole.  Sentimento che per altro ha determinato quello contrapposto, al nord, di non appartenza ad uno Stato che foraggia il sud pigro e corrotto.

Gli stessi sentimenti appunto che sono ben vivi nell’opinione pubblica tedesca o olandese o austriaca. Nei confronti degli italiani, degli spagnoli, dei greci.

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