Uscire dall’Euro.

Pubblico un brano tratto da “Il Tramonto dell’Euro: Come e perché la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa
di Alberto Bagnai
http://www.libreriauniversitaria.it/tramonto-euro-perche-fine-moneta/libro/9788897949282

Un libro che non esito a definire illuminante. Scritto con un linguaggio chiaro e comprensivo, ma non per questo meno rigoroso, senza scorciatoie o semplificazioni illustra l’origine dell’attuale crisi italiana/europea e le inevitabili conclusioni. Una lettura indispensabile per rendersi conto delle forze in campo, degli errori della politica, delle scelte da compiersi. Purtroppo la realtà è complessa, comprenderla richiede uno sforzo.

Alberto Bagnai ha un blog http://goofynomics.blogspot.it/ di cui consiglio la lettura.

Riporto anche una bella recensione da http://www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=4127 :

Siamo vissuti all’interno di un grande sogno di integrazione e pace europea, ma ultimamente tutto sembra incrinarsi. Il razzismo tedesco viene fomentato dai commentatori economici definendo Piigs (maiali) i popoli periferici dell’eurozona. L’acronimo infatti vuole ricombinare insieme le iniziali dei paesi, distanti dal cuore tedesco che soffrono finanziariamente l’unione ed accomuna Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. Come contraltare nasce e si rafforza in questi paesi un sentimento anti tedesco che vede nelle scelte dell’alto cancelliere Merkel la sadica volontà di infliggere sofferenze inutili a delle popolazioni oramai stremate da una crisi economica che come un incubo pare non avere mai fine. Come si è potuti giungere, partendo da un sogno di integrazione e pace, alla totale disgregazione dei popoli europei che ora si vedono come nemici gli uni degli altri? La risposta risiede nell’Euro, come molti “padri della patria” avevano profetizzato.

Romano Prodi, presidente della commissione europea nel 2001, tramite le colonne del “Financial Times” prevedeva esattamente questo: “Sono sicuro che l’Euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile. Ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti”. […]

“La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”, recita un proverbio della saggezza popolare. Ma ben pochi italiani oggi definiscono “bei giorni”, come fa Prodi, quelli che stiamo vivendo.

Ma come potevano essere così sicuri i “traghettatori” alla Caronte che ci hanno portato verso l’inferno della crisi che le loro previsioni si avverassero? La teoria economica esisteva già nel 1960 e prendeva il nome di “Aree Valutarie Ottimali” scritta dal premio nobel Mundell. Questa teoria descrive le caratteristiche che deve avere una zona per poter condividere una moneta unica. In assenza di queste si ottengono solo crisi finanziarie che nella storia sono sempre sfociate in rotture dell’unione. Qualche economista ha raccolto più di mille precedenti storici di agganci monetari tra paesi deboli e forti tutti risolti nella stessa maniera. Rottura dell’unione quando non addirittura guerre. Il caso recente più eclatante è l’Argentina che aveva agganciato la sua valuta al dollaro. Nel giro di dieci anni (curiosa coincidenza con l’Euro) i governanti hanno cercato in tutti i modi di mantenere in piedi l’aggancio valutario e sono ricorsi come e prima di noi all’austerità ed alla svendita di ogni bene pubblico. Erano chiamati i pupilli del FMI per quanto scrupolosamente seguivano le sue ricette per uscire dalla crisi come oggi lo sono i Piigs, Greci in testa. Ma la storia ama ripetersi anche perché chi oggi detiene le leve del potere non ha certo cambiato approccio.

E’ inutile dunque chiedersi se convenga o meno restare nell’Euro perché il suo destino è il tramonto.

“Il tramonto dell’Euro” di Alberto Bagnai vuole rendere edotto il cittadino medio che si avvicina alla disciplina economica di quali inganni è stato vittima per fargli credere nel “sogno” dell’Euro.

L’Euro – spiega Bagnai – è stato imposto ai popoli tramite il paternalismo di personaggi influenti dei vari stati dell’Unione. Allo scopo di unire forzosamente l’Europa hanno nascosto ai popoli europei i costi economici che l’adozione dell’Euro avrebbe comportato ed invece ne hanno tessuto le lodi con argomentazioni che non trovano né trovavano al tempo riscontro nella realtà dei fatti.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti, ovvero recessione, che sta oramai aggredendo anche la Germania, disoccupazione e conseguente riduzione dei salari. Perché la teoria delle AVO prevede espressamente che se viene tolta la flessibilità sul cambio delle valute, gli squilibri della bilancia dei pagamenti devono essere pagati dai dipendenti attraverso la riduzione salariale. L’Euro dunque si è finalmente palesato ai popoli per quello che è realmente: uno strumento per polarizzare la ricchezza nelle mani di pochi, che potesse finalmente invertire i risultati di anni ed anni di lotte operaie del secolo scorso.

Uscire dall’Euro potrà essere uno shock per l’economia italiana ma non sarà mai paragonabile all’agonia che la aspetta se caparbiamente tenta di restarne aggrappata. I primi provvedimenti con l’avvento del governo tecnico sono solo piccoli antipasti di una cena che sta già strozzando letteralmente la Grecia da quanto è indigesta. La soluzione migliore sarebbe, secondo Bagnai, concordare con gli altri membri un’uscita ordinata dall’unione monetaria e gestire questo evento ineluttabile invece di attendere che sia la speculazione a farlo come nel 1992 quando uscimmo dallo Sme.

Un’opera letteraria di enorme interesse contemporaneo che mira a correggere le “lievi imprecisioni” che giornalisti e commentatori economici hanno sparso qua e là nel corso del tempo per farci credere che stessimo seguendo la direzione giusta. Dopo l’uscita dallo Sme hanno convinto milioni di italiani che la via giusta era il “più Europa” con la moneta unica e dunque fissando il cambio. Oggi, non paghi del loro evidente e non più sottacibile errore propongono ancora “più Europa” come in un delirio. Ma dopo aver letto il libro capirete cosa ci sia di così sbagliato in una richiesta potenzialmente legittima come quella di unire tutti gli europei sotto una stessa bandiera. E’ stato messo il carro davanti ai buoi. Bisogna prima integrare i popoli europei anche dal punto di vista economico oltre che legislativo. Solo allora, una volta che si sia riusciti a trasformare l’Europa in una AVO si può introdurre una moneta comune.

Nell’interesse di tutti i popoli europei e per cercare di sanare le gravi fratture che l’Euro come moneta ha generato dobbiamo evolvere verso un sistema di cambi flessibili che consenta di attutire gli squilibri tuttora presenti e che con forza si sono palesati.

da: “Il tramonto dell’Euro”

Il mondo di prima

Abbiamo visto che l’euro è l’episodio culminante di un attacco ai diritti dei lavoratori sferrato in Italia fin dall’inizio degli anni Ottanta, in sincronia con quanto stava accadendo nei principali Paesi occidentali. I due elementi portanti dell’attacco sono stati, come nel modello del ciclo di Frenkel, la rigidità del cambio (prima come Sme, poi come euro) e la liberalizzazione dei mercati finanziari, prima quello interno, poi quelli internazionali. Reinhart e Sbrancia (2011) datano al 1981 l’inizio dell’attuale ciclo di deregolamentazione finanziaria. Molti ricorderanno come la deregulation (in primis finanziaria) sia stata il vessillo dei governi Reagan e Thatcher, e abbiamo ricordato sopra che Mundell ha definito l’euro “il Reagan europeo”.

Abbiamo visto che in Italia la tappa forse più importante è stata il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, il primo provvedimento a presentare due requisiti che diventeranno tipici del processo di costruzione europea.

È importante ricordarli:
– viene adottato con una logica antidemocratica, teorizzando apertamente la necessità di mettere i vari attori sociali, a cominciare dal governo stesso, di fronte a un fatto compiuto per costringerli a “fare la cosa giusta”; “giusta”, beninteso, a insindacabile giudizio dell’autore del provvedimento, dato che la decisione veniva deliberatamente ed esplicitamente sottratta al controllo del parlamento e delegata a istanze “tecniche”, giustificando questa prassi con motivazioni di urgenza legate alla congiuntura economica sfavorevole. Nasce insomma in quel momento la logica del “governo tecnico”, che fa le “riforme strutturali” sotto la spinta della crisi, logica della quale il governo Monti è solo l’ultima, meno felice, espressione;
– obbedisce a un impianto ideologico monetarista (“la moneta causa i prezzi, la Banca centrale deve essere indipendente”), che fa da sostrato alle intenzioni dichiarate, tanto buone quanto totalmente fasulle (“combattiamo l’inflazione che è la più iniqua delle imposte”). Le intenzioni reali, riflesse dai dati, sono ben diverse, e fra queste vi è una forte affermazione del fondamentalismo di mercato: anche lo Stato si deve finanziare sul mercato, in concorrenza con gli altri operatori.

L’euro, per l’Italia, inizia quindi dal divorzio, la cui logica (il divieto di finanziamento monetario del deficit pubblico) si sarebbe poi estesa all’intera Eurozona con il Trattato di Maastricht. I risultati attesi si manifestano immediatamente: dal 1981 i tassi d’interesse reale schizzano verso l’alto e il debito pubblico decolla, costringendo il governo ad articolare la politica fiscale in senso esclusivamente restrittivo; decolla anche la disoccupazione, quindi i salari reali stagnano e declina la quota dei salari nella distribuzione del reddito nazionale. Missione compiuta.

In Europa queste dinamiche, che avevano dimensione globale, si sono intrecciate in modo complesso con il disegno tedesco di egemonia.
L’aggancio valutario (prima come Sme e poi come euro), e soprattutto le regole fiscali europee, sono stati propizi alla Germania. I Paesi periferici, non potendo più permettersi di stimolare l’economia con la politica fiscale, possono reagire a una recessione solo giocando al gioco del mercantilismo, quello che abbiamo chiamato “il gioco dell’Oca”, praticando politiche deflazionistiche ulteriormente penalizzanti per i lavoratori (la svalutazione “interna”). Un gioco che la Germania era sicura di vincere, dopo essersi creata due serbatoi di manodopera a buon mercato: i “cugini” dell’Est, e i precari creati dalle riforme Hartz.

Ma anche le classi dominanti dei Paesi periferici, indipendentemente dal fatto che fossero o meno espressione diretta o indiretta della potenza egemone (come lo sono senz’altro molti attuali governi della periferia, direttamente o indirettamente espressi dalla Bce), hanno tratto benefici da questo meccanismo. Era l’aggancio valutario, motivato con il pretesto della promozione del commercio e del controllo dell’inflazione, a imporre il divorzio: solo gli alti tassi d’interesse causati dal divorzio potevano trattenere in Italia i capitali, favorendo la difesa della parità di cambio. Proprio questo meccanismo indica le reali motivazioni dell’integrazione monetaria: fornire un pretesto, il “vincolo esterno”, alle politiche redistributive di compressione dei salari.

Un pretesto apparentemente inoppugnabile, quello del vincolo esterno, del “ce lo chiede l’Europa”, supportato da una vastissima gamma di motivazioni: da quelle alte, come il sogno di un grande abbraccio europeo (con la pretestuosa e astorica identificazione di Europa ed euro); a quelle più sfacciatamente fasciste, come l’idea che essendo gli italiani incapaci di governarsi da soli, il manganello del vincolo esterno sia loro necessario.

Più precisamente, l’idea diffusa è che il vincolo esterno determinato dall’aggancio valutario non solo ci sia necessario, ma che “ce lo meritiamo”, per una nostra supposta inferiorità razziale, sbandierata da tutti i media, e motivata con argomenti che si appoggiano a evidenze aneddotiche incontestabili: tutti i noti mali italiani (corruzione, burocrazia, eccetera), i quali però, pur essendo certamente dei mali, non sono solo italiani: vogliamo parla del bunga bunga di Hartz? Delle tangenti della Thyssen-Krupp in Grecia? Dello scandalo Siemens, con 400 milioni di euro di fondi neri destinati a mazzette per i politici (Cnbc, 2007)?

Ma il punto non è questo. Mal comune certo non è mezzo gaudio. Il punto è che questi mali non possono curarsi più agevolmente in un quadro che:
– sottrae risorse all’opera dei pubblici poteri;
– apre, attraverso l’opacità dei meccanismi europei e le insistenti richieste di privatizzazione (nei servizi pubblici locali, ad esempio), ulteriori sconfinati spazi a meccanismi corruttivi e clientelari, come vedremo in dettaglio più avanti.
Ma questo all’elettore non importa. Visto che, come tutti i giornali e i politici di sinistra gli ripetono, il vincolo esterno “ce lo meritiamo”, perché siamo Untermenschen, allora l’accettazione di ulteriori sacrifici assurge al ruolo di rituale purificatorio. E sono soprattutto gli elettori di sinistra ad accettare questa logica, in Italia, perché preferiscono introiettare la nozione dell’inferiorità razziale di un popolo, pur di non ammettere di essere stati traditi dai propri politici, e di essere stati, come dire, incauti. Per salvare l’immagine che vogliono avere di se stessi, e che è purtroppo fasulla, queste persone appoggiano politiche che condannano un’intera nazione alla morte per inedia. Certo, non è colpa loro se sono stati traditi (la colpa è dei traditori) e non è del tutto colpa loro se sono stati incauti (la Natura è matrigna). Ma è possibile mai che persone che vogliono vedersi progressiste continuino ad accettare sacrifici a senso unico sulla base dell’unico argomento che il governo che ce li propone “è presentabile”?!

Anche perché questi sacrifici non sono solo economici: attraverso il meccanismo delle crisi ampiamente previste e deliberatamente amplificate, la prima cosa a essere sacrificata è la democrazia, messa alle corde dalla logica di una perenne emergenza. L’idea che riforme importanti possano e addirittura debbano essere prese sotto la mannaia dello spread, affidandole a governi tecnici che in fretta e furia smantellano diritti, è un’idea profondamente reazionaria, ma di questo tutti gli economisti e molti intellettuali preferiscono non parlare. Il rischio, si sa, è quello di essere additati come “nazionalisti”.
Del resto, non è una novità. Nel 1992 la scala mobile venne smantellata sotto la spinta dello spread crescente, nel 1993 la “concertazione” venne introdotta quando non erano ancora chiari i benefici che l’Italia aveva tratto dalla svalutazione, eccetera. I provvedimenti presi in emergenza sono sempre a senso unico, ma i loro effetti sempre permanenti.
Bene: questi sono i puntini che compongono l’immagine del “prima”.

La resistenza all’euro

Permettetemi una considerazione personale.
Sono stanco di discutere i vantaggi o gli svantaggi economici della moneta unica. Ho mostrato come altri, da decenni, l’abbiano fatto con maggiore autorevolezza di me, giungendo a conclusioni univoche. Il punto però non è questo. Io vorrei chiedervi: i nostri padri, i nostri nonni, che a un certo punto hanno deciso di andare sulle montagne per fare la Resistenza, e anche quelli che invece sono rimasti a casa, secondo voi, prima di partire o di restare, si sono chiesti se l’anno dopo la benzina sarebbe costata due euro al litro? Si sono chiesti se l’inflazione sarebbe aumentata di uno, due, o dieci punti? Si sono chiesti cosa sarebbe successo alla rata del mutuo?

Non credo. Avranno avuto altre motivazioni, e sono certo che non tutte saranno state nobili, perché l’uomo è fatto così. Ma il conto della serva non penso che lo abbiano fatto in molti: né quelli che sono partiti, né quelli che sono restati.
Preciso il concetto, qualora non fosse chiaro.
Se anche fuori dall’euro ci fosse un baratro economico (ma le cose, come vedremo, stanno in modo diametralmente opposto), se anche l’uscita ci consegnasse, come pretendono certi strampalati disinformatori, alle sette piaghe d’Egitto, sarebbe comunque dovere morale e civile di ogni italiano opporsi al simbolo di un regime che ha fatto della crisi economica un metodo di governo, che ha eletto a propria bandiera la deliberata ed esplicita e rivendicata soppressione del dibattito democratico.
Opporsi all’euro è l’unico segnale che oggi rimanga a un cittadino europeo per dichiarare il proprio dissenso verso il metodo paternalistico con il quale l’élite mette il popolo di fronte al fatto compiuto, affinché il popolo vada dove l’élite vuole condurlo. Così come l’autore del divorzio ammette di essere stato perfettamente consapevole del fatto che questo avrebbe condotto a un’esplosione del debito, gli autori dell’euro ammettono di essere stati perfettamente consapevoli che iniziare l’integrazione europea dalla moneta avrebbe condotto a una crisi. Sfido io! C’erano trent’anni di letteratura accademica a dimostrarlo. Ma, teorizzano questi politici, la crisi era necessaria: bisognava che il debito pubblico esplodesse perché lo Stato imparasse a spendere di meno; bisognava che l’Europa arrivasse all’orlo del conflitto perché gli Stati si decidessero a muovere verso la non meglio specificata “unione politica”.

Solo che in questi argomenti c’è sempre qualcosa che non torna. Dopo il divorzio lo Stato non ha speso di meno, ma di più, e per di più orientando la propria spesa verso i più ricchi. L’unione politica proposta si configura sempre di più come progetto imperialistico: si parla apertamente di creare Zone economiche speciali in Grecia, di mettere sotto tutela tutti i governi periferici…
Se accettiamo questo metodo, non ci sono limiti a quello che ci potrà essere imposto. E l’unico modo per opporci è rifiutare l’euro, il segno più tangibile di questa politica e dei suoi fallimenti.

La sconfitta
Sì, perché in fondo diciamocelo: il ciclo di deregulation iniziato nel 1981, nel cui grande solco “globale” si inseriscono la vicenda europea e quella italiana, non è che sia proprio stato un enorme successo. L’attacco sferrato dalle élite transnazionali è riuscito a orientare a vantaggio di queste la distribuzione del reddito. Ma per farlo ha dovuto imporre un ben preciso modello di sviluppo, che, come tutti ormai vedono, è sostanzialmente fallito perché basato sulle logiche della finanza, logiche intrinsecamente di breve respiro, razionalmente “disinteressate” al lungo termine, come Keynes ci ha limpidamente spiegato nel XII libro della Teoria generale.
È la miopia di questo modello a renderlo insostenibile finanziariamente, economicamente, socialmente, politicamente, ed ecologicamente. Questa insostenibilità si è palesata nella crisi più violenta da quella del 1929, una crisi dalla quale non siamo ancora usciti, della quale l’euro è un elemento amplificatore (pur non essendo quello scatenante), sia su scala regionale che su scala globale, e il cui superamento, evidentemente, non può essere demandato alle iniziative di un singolo Stato nazionale, ma richiede un coordinamento e una cooperazione internazionali. Esattamente quel tipo di coordinamento e di cooperazione pragmatica e non ideologica che l’Unione europea, come abbiamo cercato di mostrare nelle pagine precedenti, ha impedito in seno al continente europeo, dove ha invece promosso la legge del più forte e la filosofia del “tutti contro tutti”.
Come alla fine della seconda guerra mondiale, ci ritroviamo oggi con un cumulo di macerie: le macerie delle nostre istituzioni sociali, del nostro ambiente, delle nostre conquiste economiche. Come alla fine della seconda guerra mondiale, ci ritroviamo oggi con una montagna di debiti: debiti pubblici, ma, in questo caso, anche e soprattutto privati, destinati però a diventare direttamente o indirettamente pubblici; debiti, comunque, da gestire, se possibile non alla maniera europea, cioè come strumento di oppressione e colonizzazione, perché questo aprirebbe semplicemente la strada ad altri conflitti, di non minore ma più esplicita violenza. Come alla fine della seconda guerra mondiale, è necessario oggi un armistizio, che aprirà un nuovo fronte, più sottile e insidioso, con il più importante dei nostri alleati: esattamente come i sovietici, dopo aver contribuito in modo decisivo alla sconfitta del nazismo, diventarono nostri avversari nella Guerra Fredda, oggi i Paesi emergenti, e in particolare la Cina, dopo aver combattuto a fianco di noi e con maggior successo la battaglia per la crescita economica, vengono proposti all’opinione pubblica come il nemico da combattere per difendere il nostro stile di vita (difesa da impostare, ci viene detto, rovinando il nostro stile di vita con improbabili e inefficaci “svalutazioni interne”).

Non pretendiamo che questa analogia sia totalmente condivisibile né che sia storicamente valida. Del resto, quello dello storico non è il nostro lavoro, e siamo costretti a malincuore a invadere il campo altrui solo per tentare di rispondere alla domanda sul “mondo di dopo”. Una differenza è chiara anche a noi: rispetto alla seconda guerra mondiale, questo conflitto non ha vincitori ma solo vinti. Può sembrare una cattiva notizia, ma in realtà è in questo fatto, e solo in questo fatto, che risiede l’unica possibilità concreta, anche per il nostro Paese, di delineare un nuovo e meno effimero percorso di sviluppo. In questo caso, forse, il fatto che il male sia comune qualche speranza di salvezza ce la offre.

Gli sconfitti sono così tanti che enumerarli compiutamente è un compito pressoché impossibile.
Escono sconfitte, in primo luogo, proprio le istituzioni del libero mercato, le centrali del potere finanziario, che dopo aver orgogliosamente rivendicato il proprio primato tecnico e morale rispetto allo Stato inefficiente e corrotto, si sono viste costrette a mendicare dallo Stato le risorse necessarie alla propria sopravvivenza, risorse che rimpiazzassero quelle che per inettitudine, corruzione, presunzione, esse avevano sperperato in giro per il mondo, sovvertendo lo stile di vita di intere popolazioni con il miraggio del “tutto e subito”, contagiando interi continenti con il proprio, suicida, short-termism.

Non ne esce meglio lo Stato, che si è dimostrato, più che in altre occasioni, incapace di sottrarsi alla cattura da parte degli interessi della classe sociale dominante, oggi senz’altro quella che esprime le grandi oligarchie finanziarie, e che per questo ha rinunciato a svolgere le normali funzioni di controllo ad esso devolute dagli ordinamenti democratici, lo Stato che per tornaconto dei suoi servitori corrotti, o per ottusità ideologica, si è convinto dell’opportunità di fare un passo indietro, proprio quando le modifiche dell’assetto istituzionale, aprendo spazi di manovra inusitati al grande capitale finanziario (come nel classico ciclo di Frenkel), avrebbero richiesto una maggiore, e non una minore, regolamentazione e vigilanza. E nell’Unione europea le regole del diritto comunitario hanno avuto, come vedremo, un impatto devastante in questo senso.

Esce massacrata la politica, con la sua insulsa e risibile pretesa di poter tracciare scenari e visioni basandosi su aspirazioni velleitarie, svincolate dal dato economico, dalla logica del possibile, pretesa incarnata da personaggi di esiguo spessore etico e culturale, da statisti di cartapesta, da venditori di sogni (ricordate?) incapaci di accedere alla semplice aritmetica economica, e da questa puniti con il fallimento conclamato delle loro spericolate ambizioni. Anche questa, però, non è una sconfitta dei singoli (che anzi continuano a portare in giro con una certa scioltezza le proprie facce), ma della collettività, che nel momento in cui acquista coscienza della necessità di un ricambio, si trova, almeno in Italia, priva di personaggi non compromessi con il precedente regime elitario e antidemocratico, cui affidarsi per il cambiamento.

Ne escono quindi sterminati i cittadini, nella loro veste di lavoratori sempre più “traumatizzati” dal processo di precarizzazione, conseguente alla frantumazione, anche territoriale, delle catene di creazione del valore (la “globalizzazione” delle delocalizzazioni); di risparmiatori sempre più “maniacali-depressivi”, prima attratti e poi maciullati dai facili guadagni e dalle rapide perdite del gioco delle bolle; e di consumatori sempre più indebitati, nel tentativo di mantenere gli standard di vita precedenti allo shock. Tentativo incoraggiato dal sistema dominante, che vede nel debito privato un motore della crescita ideologicamente corretto, a differenza di quello pubblico, trascurando la fragilità che questo modello di sviluppo porta con sé (la terna “lavoratore traumatizzato/risparmiatore maniacale-depressivo/consumatore indebitato” è descritta nelle sue articolazioni da Riccardo Bellofiore, 2012).