Altri tempi

Ho un ricordo confuso dell’età dell’infanzia. Nel senso che non so quanti anni avessi, al momento in cui cerco di collocare alcuni ricordi. Ricordo per esempio un’estate, perché in vacanza da mia nonna, in montagna, mi ero lasciato crescere i capelli e quando a metà agosto arrivò mia madre la prima cosa che fece fu portarmi dal barbiere. Erano i primi momenti in cui iniziavo a vedere con i miei occhi il mondo che avevo attorno e non sempre andavo d’accordo con esso.

Era l’estate in mezzo a seconda e terza media. Andavo in una scuola salesiana e il terzo anno fu quello in cui dissi al professore di religione, che era un prete, che io non credevo più in dio, che erano solo storie assurde e ovviamente inventate. E questo me lo ricordo bene, perché provocò una preoccupata riunione scuola-famiglia.

Mi sono fatto uno schemino excel partendo dall’anno del diploma e tornando indietro anno dopo anno mi sono reso conto che quell’estate avevo tredici anni compiuti.

Ero un ragazzino non troppo socievole, avevo una bicicletta con le cartoline nei raggi per simulare il rumore di una motocicletta.  Io stavo a casa di mia nonna e mio fratello in quella di mia zia.  Fra le due c’erano 4-5 km e io facevo su e giù con la bicicletta, perché mia nonna viveva in un appartamento e la zia invece in campagna. Quindi mio fratello aveva a disposizione un fienile in cui giocare, galline che perdevano piume con le quali costruire specie di frecce con le pannocchie di mais ripulite, un paio di mucche e conigli cui dare da mangiare. Vicino poi c’era il fiume. Noi non potevamo andarci ma ci andavamo lo stesso.

Quell’estate avevo tredici anni, non che sia accaduto niente di saliente, ma dato che sono riuscito a farne uno spartiacque, allora posso collocare altri ricordi prima e dopo. Si perché fu l’ultimo anno che andai dalla nonna, perché poi ero diventato troppo grande, troppo difficile da controllare e la nonna non riusciva a starmi dietro. Sparivo tutto il giorno e non voleva assumersi la responsabilità verso i miei.

E a pensarci ora, pensando a quello che facevo nei prati intorno al lavoro di mio padre, dove giocavo nel doposcuola, quando il tempo lo permetteva ovviamente, oppure d’estate in montagna, c’è da meravigliarsi che io sia sopravvissuto, tutto sommato con pochi danni.

Non ero un ragazzino molto socievole, ma quando riuscivo a farmi delle amicizie, in genere mi trovavo a capeggiare una banda. La mia passione erano i giochi di guerra, dove con tattiche e strategie davo davvero il meglio di me, imponendomi anche se nel gruppo c’erano ragazzi più grandi.

Le sassaiole erano all’ordine del giorno. Anche con la fionda. Mi ricordo benissimo, ne ho l’immagine stampata davanti, di un ragazzino con la fionda in mano, gli elastici tirati al massimo, nel momento in cui sta per lasciarli e il sasso partire, da 3-4 metri di distanza, per colpirmi in piena fronte. Ogni tanto anche i migliori fanno un errore.

Ma avevo la testa dura. A parte un leggero svenimento, ovviamente nascosto ai miei, cui dissi che avevo sbattuto la testa, dopo un po’ ero di nuovo in forma.

Salivo sugli alberi per prendere frutta o nidi, ad altezze mortali, su rami che non si spezzavano solo per grazia ricevuta. Salivo sui tetti a caccia di nidi di vespe. Prendere dei nidi di vespe era un grande onore. Più grandi erano e più era grande l’onore. Solo che grandi nidi vuol dire tante vespe e le vespe ti attaccano, quando uno vuole prendersi il loro nido. Una volta mi chiusero in un angolo – fu colpa di un mio amico che colpì il nido con un bastone quando io non er pronto – e mi fecero 67 punture. Roba da rischiare uno shock anafilattico. Ma dopo due giorni ero di nuovo lì a combattere e vendicarmi delle vespe.

La caccia era una delle nostre attività principali. Lucertole, cavallette, serpenti, uccelli e tutto ciò che in genere valeva la pena cacciare. Io non uccidevo però, tranne un periodo molto breve nel quale volevo farmi accettare da un gruppo che praticava le uccisioni.   La mia banda catturava e liberava, malconce ma vive, le prede.

I più fortunati tra noi avevano fucili e pistole ad aria compressa. Quelli a gommini non valevano niente, il proiettile deviava quasi subito ed era impossibile colpire un bersaglio piccolo o distante, quelli a piombini erano micidiali: da 15 metri colpivo un barattolo 8 volte su 10.

Eravamo però abbastanza saggi da non usarli nelle guerre fra bande. Forse perché al massimo ce n’era uno in circolazione e avrebbe introdotto una tale disparità da rendere lo scontro sleale.

Le partite a pallone duravano interi pomeriggi. In bicicletta andavamo lontanissimi, mentre i genitori ci sapevano dietro il muretto. Invadevamo i territori di altre bande e allora erano botte, bastonate e sassate.

C’erano leggi ed erano assolutamente da rispettare. La prima era che qualunque cosa accadesse gli adulti non dovevano saperla, andare a lamentarsi per cose del nostro mondo di ragazzi con qualche adulto era un atto che poteva costare l’ostracismo dal gruppo.  La seconda era che le prepotenze su i deboli non erano ammesse.  Nel novero della categoria dei deboli c’erano bambini più piccoli e i cani. Erano esclusi i gatti di cui ci interessava poco, le galline e i vecchi.

I vecchi in genere si mettono di tigna con i ragazzi molto più degli adulti, i quali hanno altro da fare. C’era sempre un vecchio o una vecchia che protestavano vivacemente, prendendoci a male parole, quando facevamo chiasso, o rubavamo la frutta, o salivamo su qualche tetto… e poi facevano la spia, avvertivano i genitori. Contro di loro era guerra aperta e tutto era ammesso.

Un gioco che andava molto di moda, un’estate, era di scivolare lungo un pendio di terra di riporto, molto ripido, con ogni mezzo a disposizione. In genere si scivolava giù con un cartone sotto il sedere. Dopo qualche discesa il cartone si consumava e i pantaloni si bucavano e allora a casa erano botte.  Per cose del genere mia madre mi menava con la cucchiarella, quella di legno per girare il sugo. Io riuscii a buttarmi giù per quel pendio anche mettendomi dentro un copertone di camion, che avevamo portato su con grande fatica. Quella volta mi misi veramente paura. La ruota si fermò, un centinaio di metri dopo la fine del pendio, saltando e sbattendo, con me dentro. Mentre rotolavo giù e il mondo turbinava mi era chiaro che avevo fatto una cazzata grossa e stavolta non me la sarei cavata. Invece a parte un certo intontimento e qualche livido non mi feci niente.

Con questa scuola alle spalle, è chiaro che l’adolescenza proseguì su questa linea. Le biclette vennero sostituite dai motorini, che stavamo sempre a modificare. Ho avuto il primo incidente con la macchina a 14 anni, il secondo a 15, il terzo a 17. Il terzo fu serio. Ci cappottammo con una 500, la macchina fece tre giri su se stessa ma rimase sulla strada. Noi, in quattro, non ci facemmo niente praticamente.  La macchina era distrutta.

Ogni volta non so come mio padre non mi abbia ammazzato. Visto che prendevo la macchina a sua insaputa. Altre volte che l’ho fatto non ho avuto incidenti ma ricordo momenti in cui ho rischiato veramente la vita, passando a 120 all’ora (le macchine negli anni 70 non erano molto veloci) senza fermarmi agli stop. Non so come non mi sia ammazzato.

Non sto nemmeno a raccontare i voli fatti con il motorino, con la vespa, con la moto. Tranne un pronto soccorso e qualche mezzo distrutto non mi feci mai niente di serio. Ma un paio di incidenti furono del tipo che la gente che aveva assistito non aveva coraggio di avvicinarsi a guardare che fine avevo fatto.

Ma insomma… nell’adolescenza è normale fare queste cose. Forse non per tutti, ma per alcuni si. Infatti un sacco di ragazzi non sono così fortunati. Non superano la curva di apprendimento e ci lasciano la pelle.

Ma quando hai quell’età non stai a pensare a niente. Pensi di essere immortale e ti comporti di conseguenza.  Non è vero, e prima o poi se sei fortunato la vita te lo ricorda con una toccatina, non troppo pesante.  Se no, triste è per chi rimane, a chiedersi dove ha sbagliato, e cosa avrebbe potuto fare.

Penso che non ci si possa fare proprio niente. Che siamo programmati per essere così. Ci addestriamo a vivere vivendo, tutta la vita sembra la preparazione a qualche altra cosa, e invece probabilmente non lo è.

Non lo so. Penso da un lato che quella sorta di addestramento sia servito a salvarmi la pelle, svariate altre volte, negli anni successivi. E però ripensando ad ognuno di quei momenti in cui mi è passata vicino, mi rendo conto che sono stati così casuali… concatenazioni casuali di eventi, concatenazioni più o meno irripetibili ma che per quanto improbabili si sono verificate.

Ma forse quell’addestramento non è servito a salvarmi da questi eventi. Bensì da quelli di cui non mi sono nemmeno reso conto, perché evitati un bel po’ prima che diventassero pericolosi. E’ come avere un sesto senso che ti fa fiutare che è meglio passare di lì e non di là,  che è meglio stare lontano da quel tipo, che è meglio smettere di discutere con quell’altro…

Oggi guardo la vita di ragazzi di città e mi chiedo dove possano imparare a vivere. E non da ora, da un bel po’ che è così.

Non so se è così solo nelle grandi città, se in provincia ancora esistano spazi in cui giocare la guerra dei bottoni. Non so. Tutto il territorio mi sembra ormai inurbato. E se non lo fosse da qualche parte,  lo è senz’altro nelle abitazioni, dove la televisione pervade il tempo di ogni ragazzino.

Mi chiedo se le generazioni successive non scontino questa mancanza di giochi duri che simulavano la vita. Mi chiedo se molte contraddizioni che vediamo emergere in questa società non siano il prodotto di esperienze fondamentali mai vissute.

Forse non erano così fondamentali. O forse lo erano per un mondo che è in buona parte scomparso.

Non lo so, non ho elementi per dirlo. Forse sta emergendo un uomo nuovo, ma il mondo non mi sembra affatto pronto ad accoglierlo con benevolenza.  Non ancora.  La lotta per la sopravvivenza nel mondo è ancora una cosa maledettamente reale, assai dissimile da quella che tv e virtualità inducono a credere.  E questa generazione, anni 90 in poi, mi sembra assolutamente disarmata, sul piano individuale e su quello collettivo.

2 Risposte a “Altri tempi”

  1. Ci metterei anche “la generazione, anni 80 in poi”..

    ti ho letto molto ma molto volentieri..e nel leggerti ho rivissuto il mio “addestramento” alla vita, la mia “lotta” per la sopravvivenza…

    grazie!!

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