Su e giù per i sentieri

Il vantaggio di avere un blog sta nel fatto che senza volerlo tieni una specie di diario.
Io che non classifico, non trattengo le cose, non ordino… io che mi volto raramente verso il passato, mi ritrovo così ogni tanto a rileggermi.

I pensieri e i ricordi spesso ingannano. Col tempo affievoliscono. Le parole scritte permangono.

Solo qualche anno fa scrivevo:

Quando nei fine settimana, o quando posso, vado in montagna, tutto è finalizzato allo scalare. Dove dormo non ha importanza: se per la via che voglio andare a fare il miglior compromesso fra comodità, peso del  materiale, tempi di avvicinamento è dormire in un buco in un albero… beh dormo in un buco di un albero. Ma anche sotto i piloni di una  seggiovia, in una casa diroccata, in macchina, in tenda (che lusso), per terra dove capita. E gli altri sono come me.
Torniamo distrutti, sudati, sporchi, i capelli appiccicati sotto il casco, disidratati e affamati, magari pure un po’ infreddoliti… ci buttiamo a mangiare per terra, sdraiati sull’asfalto ancora caldo ad assorbire le ultime briciole di calore. Arriviamo bagnati fino alle ossa dal temporale e ci  spogliamo in mutande in mezzo alla strada.
Sono sicuro che se qualcuno ci chiedesse “ma che fate?” a parte  l’ovvia risposta immediata “fatti i c… tuoi…” la seconda sarebbe “siamo alpinisti”…
E la cosa strana è che quasi certamente l’interlocutore troverebbe la risposta soddisfacente. Infatti nessuno fa la domanda, in posti  frequentati da alpinisti.
Sono abituati a noi che dormiamo dove capita. Che facciamo pure un
po’ schifo a vederci. Bruciati dal sole sui polpacci e il collo, bianchi altrove; sudati, o con l’alone bianco del sudore sulle magliette e i  pantaloni, le mani bianche di magnesite, segnate di graffi, gonfie,  sporche.

Gli alpinisti sono gente strana. Pensano solo a scalare. Non hanno orari normali, stanno sempre fra loro, si conoscono tutti e parlano sempre di vie, mimano passaggi, discutono sui gradi. Le donne non sono diverse. Dormono dove capita, si lavano alle fontanelle, fanno pipì dove possono (meno dei colleghi maschi ovviamente).
Tutti con le macchine stracolme di cose, tutti sempre a trafficare con strani oggetti, corde, cordini…a consultare guide e relazioni di vie come fossero breviari di preghiera.

Una tribù di gente che nella vita avrebbe poco in comune. Ma la passione – la mania – per la roccia li accomuna e lega persone da un capo all’altro di zone geografiche lontane, di zone culturali ancora di più, di storie di vita e di età distanti.

Che ci importa di dormire per terra, di prendere il temporale, di svegliarci alle 5, di camminare ore… vogliamo solo arrivare lì, ai piedi di quella parete, capire quella linea dove passa, percorrerla, cercarla, riuscire a salirla. Tornare indietro con l’emozione sulla pelle di quella roccia rugosa, dei colori, dei suoni, degli odori.
Con la sensazione di guardare avanti a te, sopra di te, la roccia che strapiomba, e cercare di alzarsi sui piedi, su piccoli appoggi, mettere il corpo nella posizione giusta, cercare con le mani, sentire la presa, cambiare posizione, trovare il modo di combinare mani e piedi nella sequenza giusta per farti salire, mezzo metro, un metro, e di nuovo, pensare… adattare il corpo alla roccia, e la mente che lavora in funzione del corpo e della roccia e niente altro. Niente altro conta.

Tutto per questi istanti.
Come eroinomani che vivono per il buco.

Molti di quelli che vanno in montagna, o hanno altre passioni totalizzanti,  si riconosceranno in questa descrizione, oggi. Io invece no.
Lo dico senza rammarico o rimpianto, e senza sorpresa. Però mi chiedo perché sì, allora e perché no, oggi.
Se è temporaneo o definitivo, il cambiamento.

A prima vista, sembrerebbe che il motivo principale sia la relazione con una compagna che non ama questo un po’ masochistico impegno. Non condivide questa passione. Preferisce il clima mite, la situazione rilassante di una falesia, meglio se vicino al mare.

Insomma: “Le donne sono la rovina dell’alpinismo” non è il nome di una via (in lingua germanica) in zona Brenta? che viene da una frase di Paul Preuss, mi pare. Uno dei più puri alpinisti di sempre.
Ma questa credo sia una spiegazione un po’ semplicistica. E ingiusta.

In realtà, proprio rileggendomi, mi ricordo perchè scrissi quelle cose, a chi erano dirette.
Era un periodo di singletudine. Avevo relazioni sparse con varie donne, da cui fuggivo non appena cercavano (pareva a me) di catturarmi nella loro orbita di vita più o meno normale.
Era una sorta di manifesto insomma, per loro che mi leggevano: non pensate di potermi cambiare, io sono così: irrecuperabile.
Era un recinto, uno steccato, una porta chiusa.
Non c’era posto per nessuno intorno a me, in quel momento.

E su questo mi ricollego a quello che scrivevo ieri su “chi resta a casa” sul fatto che se non ci sono particolari necessità, in alcuni momenti della nostra vita, anche i figli passano in secondo piano. Ci sei solo tu e te stesso.

E’ in quei momenti che la tua passione la vivi con la massima intensità possibile. In cui spingi al massimo che il tuo corpo e la tua testa ti concedono. E’ il momento in cui sei da solo, in cui non hai paura di niente o quasi.

Ma è anche il momento in cui la libertà intossica.
Scrivevo (sempre dal mio “diario“) parlando di Into the wilde il film.

A volte qualcuno mi chiede perché vado in montagna. Io, invariabilmente, non so rispondere altro che un beh, mi piace.
Se l’interlocutore insiste pesco a caso nella vasta riserva di considerazioni precotte e in genere bastano quelle. Ma se la risposta vorrebbe essere più articolata è difficile… perché sento che dovrei considerare le cose da più punti di vista. Soprattutto perché, quello che trovi, dipende da quello che cerchi; e a volte, lo trovi anche se non sapevi quello che stavi cercando.
A volte mi prende una necessità di solitudine che esclude gli altri quasi violentemente. Me ne vado in posti dove realmente non verrà nessuno e a far cose in cui l’essere solo è una forma di catarsi. Altre volte la solitudine è più una forma di autocommiserazione. Allora vado in posti in cui so che incontrerò qualcuno. Non cerco nessuno ma mi metto nelle condizioni di farmi trovare.
Invece ci sono momenti in cui l’essere con gli altri è importante. Le emozioni vanno condivise.
“La felicità non è reale se non è condivisa” scrive Chris McCandless “Supertramp” poco prima di morire in “Into the wild”.
Penso sia vero, ma non in senso assoluto. Come sempre le parole sono ambigue. La condivisione può anche arrivare dopo, a volte.
Ma a parte questa considerazione è vero che alcune emozioni si rafforzano, acquistano valore e importanza se condivise.

Ma anche il silenzio ha un valore. Si ascoltano i propri pensieri.
Come si può ascoltare la propria voce interiore se si chiacchiera?
Svogliato e impigrito. Apatico. Lunatico. Scontroso. Mi ritrovo quando non me lo aspettavo neppure. Semplicemente sto bene, e il tempo si ferma.
Ecco, ho dormito in tenda, mi sono cucinato con il fornelletto le mie minestre in tetrapack, ho mangiato in piedi direttamente nella pentola dando anche un morso al pane e uno al formaggio appoggiati su un sasso; ho bevuto una birra e non ho bisogno di altro. Solo di stare li e di andare, il giorno dopo, a camminare, arrampicare… ovunque… non importa.

Mi piace la sensazione di partire all’ora in cui voglio, decidendo proprio all’ultimo istante la direzione in cui andrò, e momento per momento cosa fare.
Mi piace sentire quella presenza a se stesso che provi quando devi curare con attenzione ogni movimento che fai perché sei fuori dai percorsi abituali della gente, una dimensione di cui abbiamo un po’ dimenticato il significato.
Mi piace passare senza lasciar traccia individuando un percorso possibile, su un prato scosceso come una parete verticale.

E forse tutto ciò mi piacerebbe condividerlo. Ma forse la mia necessità di condivisione non è rivolta realmente ad un altro, diverso da me, quanto invece ad una proiezione di me stesso. Un qualcuno ideale che mi accompagni nei miei capricciosi balzi d’umore, cambiando percorso a seconda del sole o vento, in senso letterale. E allora lo condivido scrivendo.

Ma tutta questa libertà intossica. Paradossalmente questo tipo di libertà rende schiavi ed esige il sacrificio di ciò che è più complesso da costruire.
E’ in un certo qual modo l’avvicinarsi ad uno stato animale di non programmazione. E’ essere, semplicemente, a seconda degli stati d’animo. Rifiutando il dover essere in relazione ad uno scopo.

E allora, se trovo compagni di strada sono felice di condividere con loro il mio tempo e i miei pensieri. Qualche volta. E ho i miei compagni  preferiti. Quelli con cui mi trovo bene e di cui mi fido. Ma la  condizione indispensabile è il sentirsi liberi. Per me, ma anche per loro. Se ci siamo trovati.

Paradossalmente questo tipo di  libertà rende schiavi ed esige il sacrificio di ciò che è più complesso da costruire.

Probabilmente ad un certo punto, poco dopo, dentro di me è cresciuta la voglia di costruire qualcosa di più complesso che una solitudine.

E ho dovuto scegliere.
Se fossi stato più giovane, se avessi avuto più forze, avrei cercato di farci stare dentro tutto. Di dividermi. Ma gli anni passano e a malapena si riesce a fare una parte, di quello che ti interessa. Si diventa selettivi e si sceglie.

E poi anche la crisi. Oggettivamente, negli ultimi anni ho dovuto come molti riguardare la lista delle mie priorità anche dal punto di vista economico. Anche lì è stato necessario scegliere.

Una considerazione che ho fatto spesso con me stesso, è quella che in quel periodo ebbi due o tre forti segnali che mi era passata accanto di un soffio. E che le proverbiali sette vite, o jolly da giocare, forse erano finiti. Provai anche ad abbassare il livello, ad andarci cauto, ma non serviva. Anche camminando su un sentiero, se ti cammina vicino, ti può toccare.

Considerai più saggio starmene un po’ lontano dalla montagna. Forse non avevo testa. Forse ero preda di pulsioni inconscie autodistruttive. Non so. Ma la parte di me che ci tiene, a me… mi disse stai a casa per un po’.

Ma nelle mie vite, la montagna è stata forse l’unica costante. Per me che l’alpinismo è la continuazione dell’escursionismo con altri mezzi, non conta tanto quello che faccio, ma il fatto di essere lì. Almeno è sempre stato così. Perché ora non sento più quella necessità di soffrire sui sentieri, sulle pareti, nella neve… perché mi annoia l’idea di fare i soliti sentieri, le solite pareti, le solita nevi?

Forse era solo inquietudine la mia forza propulsiva? O che la vita mi pone altri casini e le energie vanno scemando?

Il fatto stesso di scriverne, di andare a ricercare nei meandri del mio blog quello che avevo scritto in passato, rivivendo così certe sensazioni, chiedendomi come mai erano scomparse dalla mia vita, era evidenza del fatto che ci stessi pensando.
Che fosse il culmine di un pregresso processo inconsapevole di revisione, oppure l’anello iniziale di una successiva catena di pensieri, non so.
Però ieri sera, dovendo scegliere fra una falesia affollata e la montagna, ho scelto la montagna.

Il fatto di essere da solo è stato una delle ragioni  in più , in questa scelta. Ma in altri momenti non era bastato per uscire dal letto alle cinque.
Però il fatto di essere solo, ovvero di non aver alcun impegno, di non dovermi preoccupare di niente che non fosse lo zaino, è stato importante.

Ho scelto appositamente una zona fuori mano, ai margini occidentali della gruppo del gran sasso. Dove pensavo che non avrei incontrato nessuno. Dalla valle di Vasto, alle pendici di Monte San Franco,  fino al Pizzo di Camarda.
Mi ero portato scarponi e anche ramponi ma quando ho visto che c’era poca neve sono andato con le scarpe leggere.
Macchine: nessuna. Gitanti: nessuno.
Sereno, senza vento, anche al Colle del Vento l’aria era ferma.

Una passeggiata su una carrareccia, almeno il primo tratto.
Mentre andavo su gli unici essere viventi erano i cavalli.

Poco distanti vedevo le cime innevate del Monte Corvo, e sapevo che dietro c’era Pizzo d’Intermesoli e il Corno Grande. E a destra la mia metà, il Pizzo di Camarda, e dopo la cresta delle Malecoste, il Cefalone.
Ricordavo le prime volte che mi ero avvicinato a questi luoghi. La sorpresa, per me che avevo conosciuto la montagna nelle Dolomiti, di ritrovarla qui, dove non mi aspettavo. La fretta di arrivare sulla cima più alta, il Corno Grande.

La prima volta invece che per la normale ci andai per la cresta Ovest. La seconda subito per la Direttissima. E mi sembrava di aver scalato.
E poi la vetta si confondeva, nelle decine di volte che l’avevo raggiunta, da ogni versante, in ogni stagione, con qualsiasi tempo, da solo o con altri.
Mi ricordavo gli amici, in situazioni particolari. L’ultima forse quella di free tibet, quando andammo a bruciare dei fumogeni sulla cima.

La caduta spaventosa da quella cima, rotolando sulla neve dura, per centinaia di metri, di un’amica. Illesa.
Le valanghe che mi avevano sfiorato, un giorno in cui fui molto fortunato.
Di solo la notte. Il silenzio assordante. Quel silenzio che sembra soffiarti nelle orecchie.

Era giusto, pensavo, che dopo tutto questo tempo mi avvicinassi alla montagna da lontano. Ricominciassi da capo,  conquistando una cima minore della sua corte. Era la giusta umiltà. Per questo avevo scelto quel percorso. Fuori dai gruppi di sciatori che prendono la funivia a fonte cerreto, gli scialpinisti, gli alpinisti.

Lo zaino è leggero e non sento molto la mancanza di allenamento. Quando lascio la carrareccia e vado per la cresta erbosa, ora da una parte ora dall’altra, facendo zig zag fra le chiazze di neve dura, il panorama si è aperto.
C’è foschia, in basso, ma il lago di Campotosto, che sembrano due, gode di una specie di area pulita, per cui si vedono le case del paese specchiarsi nell’acqua, anche se non è proprio vicino.

Riesco ad evitare le chiazze di neve, che a quest’ora sono ancora durissime: ghiaccio trasparente. Ma mi frega un tratto di terreno vetrato. Impossibile da vedere: la terra inzuppata dal disgelo diurno gela la notte e l’erba cortissima è coperta da uno strato di vetrato invisibile. Scivolo e cado. Non potevo andare da nessuna parte.

Però non si finisce mai di imparare: l’erba gelata non l’avevo mai incontrata. Magari se era un punto esposto, con tutta la mia esperienza…

In breve arrivo in cima a Monte Ienca, ho dovuto salire per evitare la neve sul piano di Camarda. E lì capisco che non arriverò in cima al Pizzo di Camarda, con le mie scarpe da ginnastica.
Ci provo, non si sa mai, scendo alla sella e risalgo, ma dove la neve diventa ripida sarebbe veramente troppo pericoloso. Non sto in piedi e la scivolata sarebbe lunga. Troppo.

La mia meta era il pizzo innevato tutto a destra. Arrivo fino alla piccola anticima sotto sulla sinistra, circa 50 metri sotto la cima.
Mi fermo, mangio e torno indietro.

Nemmeno la soddisfazione della cima minore.
Ma giustamente, mi dico. Parti con le scarpe da ginnastica, altro che umiltà.

Comunque è lunga, al ritorno. E ora, per questi 800 metri di dislivello, sono pure abbastanza cotto.
Domani falesia, però.