Quando salendo creavi il mondo

(Fosco Maraini – da "Aquilotti del Gran Sasso.
Pietracamela 1925-1975" )

Arrivammo ad Assergi in moto, mio cugino Nico ed io. Ma da
lì in su la montagna era vera montagna, non com’ è oggi – un terrapieno per
strade asfaltate, o una specie di gigantesco pilone per gondole di funivie.
Soltanto il fatto di salire a piedi, con un pesantissimo sacco sulle spalle, da
Assergi alla Portella, al crinale sassoso tra Pizzo Cefalone e Monte Portella,
che lunga, lenta, sudata conquista! Quelle ore di fatica ci allontanavano
gradualmente dal mondo normale della pianura e della città. Lasciavi la fonte
Cerreto tra le querci; poco dopo gli alberi si trasformavano in arbusti, poi
sparivano del tutto, mentre la salita si faceva più ripida. Le ossa di pietra
della montagna sbucavano dal manto misero e giallastro d’erbe secche. Ti
sentivi lentamente accolto in un mondo dalle dimensioni inconsuete ed
affascinanti. Le ore? Non contavano più nulla. Questi erano posti da secoli!
L’orizzonte si allargava piano piano. In un certo senso, salendo «creavi il
mondo» – men¬tre adesso te lo trovi confezionato come un prodotto industriale,
uscendo dalla funivia sul terrazzo dell’albergo. Avevi sete? Dopo molta pena un
piccolo stillicidio tra i sassi era scoperta e gioia. Avevi fame? Una sosta col
sacco appoggiato sopra le pietre era ristoro e distrazione.

Poi, non so, mi sbaglio? Ma esisteva tutto un mondo
pastorale vivo e presente che oggi è quasi scomparso. Incontravi greggi,
sentivi tintinnio di campane, respiravi odori forti di concimi, e il vento ti
portava agli orecchi voci roche e richiami. I pastori – ne incontrammo diversi
– sembravano uomini d’un altro tempo, d’un’altra specie. Oggi se ne vedono
ancora, ma arrivano su dal paese in macchina o in moto, tengono in tasca la
radiolina; non sono più dei superstiti o dei testimoni d’un universo
antichissimo e segreto, ma dei rozzi apprendisti d’un mondo nuovo, meccanizzato
e purtroppo in gran parte volgare. Certo, può essere che mi sbagli! Ecco perché
parlo di «nascita del mito». Forse il mondo di quei tempi non era poi tanto diverso
da quello di oggi; io però me lo ricordo diverso.

Se raccontassi ai miei nipoti le giornate del Gran Sasso
d’allora, parlerei di pastori baffuti, foschi, sibillini, che portavano vecchie
mantelline di lana militari grigioverdi ( guerra ’14-18 ) sulle spalle, e
prodigiosi gambali di cuoio intorno agli stinchi; uomini misteriosi che
apparivano dal nulla all’imbrunire, come re magi; parlavano una lingua quasi
incomprensibile; incutevano una vaga inquietudine perché non sorridevano mai.
Di là dalla Portella scendemmo su Campo Pericoli e ci dirigemmo al Rifugio
Garibaldi, un edificio basso e malconcio, quasi nascosto tra le gobbe del
terreno sassoso. Mi sembra ci fosse un solo custode, un uomo anziano, molto
simile a quei pastori che avevamo incontrato salendo, e come loro parco di
parole. I rifugi d’oggi sono quasi sempre parenti del bar di paese; ma allora
un rifugio faceva piuttosto pensare ad un antro, una spelonca, un tugurio di
pastori. L’immersione nella montagna era più genuina e totale. Se ne restava
più vigorosamente trasformati.

Oggi ci portiamo dietro troppa industria, troppo
scatolame, trop¬pe scritte, troppa plastica; la denudazione della vita
quotidiana non arriva ad essere completa; certe cose nefaste ci s’attaccano
addosso come malattie. Allora al rifugio mangiavamo pane, formaggi, latte,
eravamo ospiti delle greggi. Nella cucina di ghisa bruciavano pezzi di vecchio
faggio portati lassù a dorso di mulo. Era autunno. Non c’era anima viva in giro
– voglio dire turisti, alpinisti. D’alpinisti da quelle parti c’eravamo solo
noi.



Restammo al rifugio quasi una settimana e salimmo
parecchie cime d’intorno; il Corno Grande, si capisce, poi l’Intermesoli, il
Cefalone, il Corno Piccolo. Tornammo due volte al Corno Piccolo. La seconda
volta ci sbizzarrimmo su e giu pei vari torrioni. Non so come, ci trovammo su
per la parete sud del Torrione Cichetti. Ad un certo punto pareva non fosse
possibile proseguire, m’ero incrodato lungo una lastra liscia, quasi verticale,
senza un appiglio. Guardando bene scoprii un buchetto curioso, anzi erano due
buchetti che si riunivano dietro, tra di loro. Infilai un cordino, che poggiava
sulla colonnetta di pietra separan¬te i due vuoti, e me ne feci una staffa. A
quei tempi le sigle esoteriche di oggi non erano ancora state inventate; forse
oggi si direbbe ANI, «artificial-naturale I», chi sa! Cosi la paretina venne
felicemente superata; Nico ed io ci trovammo seduti sulla vetta del Torrione in
uno dei pochi momenti di sole, durante quei giorni per lo più cupi e nebbiosi.

Sul Corno Grande e sulle cime vicine, sul Torrione Cambi,
sulla Vetta Centrale, avevamo ritrovato la pietra, i colori, la vegetazione
stessa delle Dolomiti. Era stata un’impressione inattesa e piacevolissima, come
tornare tra vecchi amici! Non so, forse esagero, ma il vero innamorato dei
monti ha gioie, talvolta, d’un’autentica sensualità geologica. Come l’amatore
di donne gioisce alla scoperta di certi paesaggi carnali {quei peluzzi biondi
sulla pelle bruciata dal sole, quell’attacco del collo, quella tal caviglia
…), cosi chi degusta i monti fino in fondo con l’anima, coi sensi, con tutto,
prova brividi d’intenso piacere geologico alla vista ed al contatto di certe
pietre, di certe rupi.

Dopotutto la roccia cos’è se non carne del mondo, carne
cosmica? Personalmente trovo sempre irresistibile il calcare, le sue luci, i
suoi colori, il suo tatto, la sorpresa continua del suo modellato capriccioso.
Tutto mi piace nel mondo del calcare; le piante che prediligono quel sostrato,
la terra rossa che si nasconde nelle buchette, il brillio d’una vena di
cristalli minuti. Le Dolomiti, si sa, sono la metropoli del calcare, ma monti
di quel sasso corrono dalle Grigne a Trieste ed oltre. E come non ricordare le
grandi rupi rosse di calcare intorno a Palermo, Monte Pellegrino, Capo Gallo,
Capo Zafferano, Pizzo Lungo, luoghi che pochi conoscono, monti scolpiti a
strane rughe, con spaccature dai bor¬di taglienti, dove ci si arrampica seguiti
dai profumi di spe¬zie quasi esotiche, dalle salvie, dagli elicrisi, dai rosmarini,
dai cavoli selvatici? Certe volte per liberare una cengia si strappano ciuffi
d’euforbie.

Il Corno Piccolo era invece del tutto diverso. Ecco una
roccia severa, maschia, che si presentava in blocchi smisurati come castelli, o
come antichi templi un po’ misteriosi, con cupole e duomi arrotondati. La luce
radeva la pietra con felice eleganza mettendo in rilievo la sua granulazione
quasi preziosa. Era bello questo contrasto tra la superba semplicità delle
singole masse petrigne, e la finezza poi dei particolari. Toccavi, carezzavi
quella pietra, come avviene pel protogino del Monte Bianco, con un senso vago
di riverenza, quasi ti trovassi al cospetto d’un gigante. La dolomite è più
femmina, più capricciosa. Questa era una roccia elementare, possente. Non so,
mi pareva s’intonasse in modo perfetto cogli orizzonti sconfinati dell’
Abruzzo. Più tardi avrei imparato quante somiglianze vi possono essere tra
certi panorami abruzzesi e certi prospetti del Tibet.

Campo Imperatore, per esempio, potrebbe benissimo essere
Tibet; ricorda la pianura sconfinata di Phari Dzong, a 4200 metri, sulla via
tra l’India e Lhasa. Certo le dimensioni. Lo so; ma fondamentalmente ci siamo.
Oggi !’incanto è guasto, rotto; Campo Imperatore è percorso dalle macchine che
corrono lungo nastri d’asfalto. Ci sono alberghi, rifugi, cantoniere, spacci.
Ma in quegli anni lontani non era ancora arrivato il «progresso» e Campo
Imperatore bisognava conquistarselo passo passo, con ore ed ore di cammino. Le
vere dimensioni del paesaggio ti penetravano in corpo, in cuore, poco alla
volta, come un filtro sottile che esercita la sua malia dopo molto tempo.

Lasciato il Rifugio Garibaldi, che allora era l’unica base
d’appoggio, Nico ed io volevamo fare una puntata al Prena ed al Camicia. Il
cielo era basso, cupo; c’era poca speranza. Campo Imperatore era infinito; un
oceano di pascoli lambiti dalla nebbia portata dal vento. Quando arrivammo
verso Vado Di Corno cominciò a piovere. Ci rifugiammo sotto una roccia ed
aspettammo. Passò molto tempo. Si fece tardi. Dovemmo rinunciare. Mentre
tornavamo verso la sella di Monte Aquila, le nubi d’un tratto si aprirono. Per
alcuni istanti apparve, incredibilmente alto nel cielo, il Corno Grande
vagamente sfiorato dagli ultimi raggi di sole. Sono cose che non si dimenticano,
parte d’una leggenda segreta del cuore.

da Cai-Tci Grazzini-Abate 37b) Via Maraini
Fosco Maraini e Nico Arnaldi, 19 settembre 1933. Arrampicata bella e su ottima roccia.
L’attacco è in corrispondenza della Forcella fra il Torrione Aquila e la Torre Cicchetti e può essere raggiunto per la via Chiaraviglio-Berthelet o percorrendo in senso inverso la cengia del pendolo dalla via ferrata Danesi.
Guadagnare su parete (3 metri) un’esile cengetta, prendere a sinistra il filo dello spigolo (IV) uscendo poi a sinistra su una cengia (25 m)
Proseguire superando una paretina e su placche appoggiate raggiungere la vetta.

4 Risposte a “Quando salendo creavi il mondo”

  1. Capisco cosa vuoi dire …. ma il mondo è in continuo cambiamento. Ed anche tu. All’epoca vedevi le cose in un modo. Adesso le vedi in un altro. All’epoca anche tu vivevi in un modo diverso da adesso … cosa molto naturale sai? Non c’è proprio nulla di male. Non è ne meglio e nè peggio … solo "diverso" da ieri e lo sarà anche da domani.
     
     

  2. Mi sembrava evidente che la citazione di un autore e di un titolo di libro a inizio brano significasse che non si tratta di una cosa che ho scritto io. Semplicemente mi piaceva e l’ho riportato.

  3. Scusami Robè!! Ma non ci vedo più!!! Davvero!! mi mancano un sacco di gradi e come puoi notare mi sfuggono molte cose 🙁
    Come non detto!
    Comunque ho deciso di fare l’intervento. Ho una paura tremenda, ma non posso continuare così!! Davvero, non sto scherzando, sto veramente conciata malissimo… SOB!
    Buona notte caro.
    Mizzy

  4. Mi dispiace, non sapevo. Volevo solo precisare che non era mio, lo scritto, anche se mi sarebbe piaciuto che lo fosse stato.Ciao.

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